Il doppio aurelianiano: una meteora nella complicata monetazione romana del III secolo

La monetazione romana del III secolo riflette pienamente la grave crisi economica, politica e militare che attraversò l’impero in quegli anni: in 80 anni, da Caracalla a Diocleziano vi furono tre importanti riforme monetarie. Con la prima, l’imperatore Caracalla introdusse una nuova moneta in argento, il cui nome oggi è sconosciuto e che per convenzione viene chiamato antoniniano (dal nome che Caracalla adottò, Marco Aurelio Antonino). Questa moneta doveva valere 2 denari, ma il suo peso era pari soltanto ad 1,5 denari. Un primo segnale, questo, dell’inizio della svalutazione della moneta d’argento, quella utilizzata per pagare lo stipendio i soldati. Caracalla, infatti, aumentò il numero di effettivi dell’esercito e per far fronte alle spese introdusse la nuova moneta. Nel corso degli anni, l’impero entrò in una instabilità politico-militare detta “anarchia militare”, in cui molti imperatori, eletti perlopiù dai propri eserciti, si susseguivano in rapida successione (nel 238 vi furono addirittura 6 imperatori). L’antoniniano inizia a contenere sempre meno argento. Si rende così necessaria una seconda riforma, risalente al 274 e messa in atto da Aureliano per riformare l’antoniniano, ormai degradato nel peso e nel contenuto di metallo fino (si passa dal 50% al 2% di contenuto d’argento). Questi nominali, anche detti aurelianiani, recano in esergo un’indicazione, espressa in numerali latini (XXI) o greci (KA). Dopo anni di dibattito, oggi si ritiene, probabilmente a ragione, che tale cifra indichi il contenuto di fino, mediante il rapporto tra bronzo e argento della lega: venti parti di bronzo e una di argento.  Queste monete contenevano quindi il 5% di argento.

Ad Aureliano succede Tacito che, seppur regnando per meno di un anno, apportò un’innovazione facendo coniare nelle zecche di Antiochia e Tripoli, le più vicine al teatro delle operazioni militari condotte dall’imperatore nel 276 contro i Goti, alcuni aurelianiani con l’indicazione XI (zecca di Antiochia) e IA (zecca di Tripoli). Se effettivamente si dà credito alla teoria che vuole questi numeri come indicatori della composizione della lega della moneta, allora ne consegue che questi particolari nominali vanno intesi come dei doppi aurelianiani, dove il valore doppio non è dato da un aumento del peso, bensì dal doppio contenuto di fino nella lega: X parti di bronzo e una di argento, ovvero il 10%.

In effetti, diversi studi metallografici (Callu, Brenot, Barrandon 1979/Esty, Equall, Smith 1993) hanno dimostrato che il contenuto di argento di queste monete varia tra l’8 e il 10%, confermando quanto espresso dai numerali in esergo.

Ma quanto valeva un doppio aurelianiano? Se l’aurelianiano mantenne, sembra, il valore di due denari dell’antoniniano originale, ne consegue che uno doppio ne doveva valere quattro. Tuttavia, in breve tempo, l’aurelianiano incrementò il suo valore e vent’anni dopo la sua comparsa, nel 294 (anno della riforma di Diocleziano), doveva valere, probabilmente, circa cinque denari. È probabile che anche i doppi aurelianiani in circolazione, se ancora ve ne fossero, si adattarono alla fluttuazione del valore dell’aurelianiano.

La rarità dei doppi aurelianiani fa escludere però che questo nominale venne pensato per essere parte integrante del circolante comune, almeno all’inizio. Probabilmente, data la produzione limitata a due zecche orientali, doveva si trovava l’imperatore con il suo esercito, queste monete dovevano avere un ruolo nei donativi (elargizioni) concessi ai soldati. La bassa produzione piò anche essere dovuta ad una certa “sperimentalità” di questo tipo di moneta: se il mercato avesse reagito in maniera positiva agli esemplari immessi in circolazione, si sarebbe potuta iniziare una produzione su larga scala. Tuttavia, con il breve regno di Tacito, l’esperienza si conclude, seppure temporaneamente.

Infatti questo nominale verrà ripreso anche da Caro sei anni dopo, tra il 282 e il 283, nelle zecche di Lione e Siscia. Nella prima il valore doppio viene espresso mediante l’utilizzo, sul ritratto dell’imperatore, di due corone radiate. Questo attributo indica, nella monetazione romana, un valore di due unità, per cui utilizzando due corone radiate si raddoppia infatti il già duplice valore dell’aurelianiano, che, ricordiamo, valeva due denari. In altri casi, sempre a Lione, la corona radiata era uno, ma nel rovescio della moneta vi era di due denari. In altri casi, sempre a Lione, la corona radiata era una, ma al rovescio della moneta vi era l’indicazione X ET I, ovvero XI, come nei doppi aurelianiani di Tacito. Nella zecca di Siscia si ricorreva, invece, all’utilizzo di due busti radiati affrontati di Caro e di Sol (il Sole) e dall’indicazione X.I o X.I.I al rovescio, in esergo.

Al 283 risale perciò l’ultima attestazione di questo nominale. Sia per Tacito che per Caro si può parlare di emissioni sporadiche, di breve durata, destinate ad un utilizzo più che altro celebrativo che non a di divenire una moneta da utilizzare stabilmente. Soprattutto osservando gli esemplari di Caro, si nota come siano caratterizzati da una simbologia eccezionale e da una discreta rarità, soprattutto per i tipi di Lione, il che ben si sposa con monete destinate a donativi o a particolari celebrazioni.  

di Fabio Scatolini

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