La vergogna della Kabul talebana: sport vietati alle donne e classi divise

Kabul è ormai un mondo senza sport femminili, senza musica che non siano le nenie religiose, senza giochi, senza volti di donne, senza immagini. Un mondo in cui a dominare sono uomini barbuti che sorvegliano con spietato rigore, fantocci di burqa blu o neri dalla testa ai piedi.

Eppure soltanto tre settimane fa i nuovi padroni talebani, gongolanti della loro vittoria, promettevano a parole che il nuovo Afghanistan sarebbe stato conciliante e accondiscendente nei confronti della società civile sviluppatasi negli ultimi vent’anni sotto l’influenza culturale e sociale della coalizione occidentale a guida americana.

Ebbene, non era vero. Martedì la presentazione del loro nuovo governo ha riportato in auge figure e modi di pensare legati a filo doppio alla loro teocrazia radicale tra il 1994 e il 2001. L’incubo che l’Afghanistan torni ad essere una base logistica del terrorismo internazionale diventa concreto.

Di pochi giorni fa un ulteriore passo indietro. Negli atenei lunghe tende per separare le studentesse dai compagni, un vero abuso in quanto nessun verso dell’Islam sostiene tali tesi. Ora anche studiare sarà inutile. Non solo sono state bandite le proteste non autorizzate ma le donne non potranno giocare a cricket, né praticare alcun altro sport che esponga i loro corpi e li mostri ai media. L’Islam vieta che il corpo della donna sia visto in pubblico, ha dichiarato Ahmadullah Wasiq, che è il numero due della Commissione culturale talebana. Ad ascoltarlo tornano alla mente tutti i lenti progressi compiuti dalle donne e in realtà dall’intera società afghana, in quei primi anni post-2001. Allora la nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini, sembravano successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre.

Un sogno finito.

L’illusione di un progresso irreversibile si schianta in un deserto di delusioni e paure per il futuro. Questo senso di rottura radicale col recente passato diventa un collettivo trauma identitario e trova la sua espressione plastica nelle tende che adesso vengono tirate nelle classi scolastiche per dividere le donne dagli uomini. Visitando alcune università private che sono state riaperte da poco (quelle pubbliche restano chiuse) si è assistito a questo scempio.

«Le nostre facoltà di Legge formano giudici e avvocati. Valorizziamo i diritti civili. Io stesso faccio parte della commissione che sino al 15 agosto era incaricata di supervisionare la stesura della nuova Costituzione afghana. Ora tutto questo non ha più valore. I talebani imporranno la loro lettura radicale della legge religiosa islamica. Ci considerano nemici, siamo inutili nel loro Stato. Tanti giovani studenti mi dicono che non intendono continuare i nostri corsi. A che servono? Non troverebbero lavoro», spiega Yarmohammad Baqri, 61enne rettore della Ibn Sina University.

Queste università contano circa 1.600 iscritti, il 35 per cento donne, ma ieri erano presenti in tutto solo una quarantina. Lui stesso legge le nove disposizioni appena rese note dal nuovo ministro dell’Educazione talebano. Prevedono la totale separazione tra donne e uomini. «Se ci sono più di 15 studentesse è obbligatorio organizzare classi separate. Se il loro numero è minore occorre tirare un telo divisorio dai compagni maschi. Le ragazze devono entrare in classe cinque minuti prima dei ragazzi e uscire cinque minuti dopo, per evitare occasioni d’incontro. Le classi femminili dovrebbero avere insegnanti donne. Se mancassero, dovrebbero allora trovarsi professori anziani, mai giovani», recita dal testo.

La tenda rappresenta l’ennesimo segnale della politica talebana, che toglie alle donne qualsiasi prospettiva di carriera. Anche se studiassero è implicito che poi non permetteranno alle donne di lavorare, saranno sempre discriminate e i talebani non permetteranno che le loro lauree diano loro accesso a posizioni di rispetto. Il rettore Mohammad Arunstanzai mostra dal portatile le nuove disposizioni che pubblicano anche le immagini di lunghi vestiti neri destinati ad essere presto obbligatori per le studentesse.

Il rettore confessa di temere per il futuro dell’intera università. «Abbiamo oltre 2.000 iscritti, di cui almeno 500 ragazze. Ma oggi si sono presentate solo 10 studentesse e 40 studenti. Tanti ci dicono che intendono lasciare».

Tra le spese supplementari imposte dalle regole della separazione tra i sessi c’è anche quella del personale universitario. Lui è stato costretto a trovare una stanza riservata alle 10 docenti, che non possono più stare con i 65 colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato la porta di accesso al loro ufficio. Sembra quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi.

E quello che mai avremmo pensato potesse accadere, è accaduto annientando i piccoli-grandi progressi degli ultimi vent’anni.

Le donne tornano a doversi nascondere, a celare il loro corpo, a studiare con una tenda che le separi dagli studenti maschi. Sembra di essere tornati nel medioevo. Un totale azzeramento della dignità di queste donne, il loro disconoscimento. Non sono solo fantasmi, più propriamente non esistono.

E questa totale sopraffazione e annientamento dei diritti umani non può non far agire la comunità internazionale. Sarebbe un’ulteriore beffa che non può essere accettata. Ciò che sta accadendo in Afghanistan riguarda tutti noi. Ogni diritto negato ad una sola donna e un diritto negato a tutte le donne del mondo.

di Stefania Lastoria