La giustizia “incartabiata” e altre disgrazie
L’affluenza alle urne per questo referendum sulla giustizia è stata del 20,9%, la più bassa di sempre. È pur vero che c’è una disaffezione degli Italiani dal voto e più in generale dalla politica, ma forse questa volta l’astensionismo ha delle buone ragioni. Credo, infatti, che molti abbiano compreso che non si trattasse di un referendum sulla giustizia. Per esempio, non incideva minimamente sulla “ragionevole durata” dei processi, né sull’aspettativa di avere più colpevoli alla sbarra e meno innocenti dietro le sbarre, che è un po’ il senso di quella che tanti politici chiamano “giustizia giusta”. Non toccava per niente quella sensazione che spesso un cittadino ha che il processo sia dominato da un linguaggio da azzeccagarbugli e da procedure dello stesso tipo.
Forse non pochi si sono accorti della bugia più volte reiterata dai promotori del referendum: quella che da oltre trent’anni si attende una riforma della giustizia, e che il mezzo referendario serve da stimolo a ottenerla.
Credo che tra tutte le bugie, e non sono poche, che buona parte dei nostri politici pronuncia con grande frequenza, questa è una delle più sfacciate. Infatti, la giustizia ha visto già tre riforme negli ultimi vent’anni: la riforma Castelli, promossa dal governo Berlusconi nel 2005, la riforma Mastella, attuata dal governo Prodi nel 2007, e la legge anticorruzione del 2019 (la cosiddetta “spazza corrotti”). In aggiunta, è in pieno iter parlamentare la riforma Cartabia, con la quale le riforme dell’ordinamento giudiziario diventano quattro in meno di un ventennio.
Ma sia chiaro: quattro riforme per non sciogliere i nodi di una giustizia efficace ed efficiente, paragonabile per la durata dei processi a quella dei nostri partner europei e più vicina all’interesse dei cittadini in termini di colpevoli assicurati alla giustizia e di innocenti garantiti.
Al contrario dal combinato disposto delle riforme, compresa quella in fieri, abbiamo ottenuto una garanzia – o almeno un’elevata probabilità – di impunità per la maggior parte dei reati, e di maggior dipendenza dei magistrati dalle forze politiche, in barba alle norme costituzionali.
L’impunità è propiziata dalla norma che prevede, a partire dal 2025, la cosiddetta “improcedibilità”, cioè la cancellazione del processo, con conseguente impunità dell’eventuale colpevole, se il processo si prolunga oltre i due anni in appello ed oltre l’anno in cassazione. Secondo gli stessi magistrati, il 50% dei processi decadrà per effetto della riforma; secondo un mio stimatissimo amico avvocato, tranne che per l’omicidio e pochi altri gravissimi delitti, in Italia puoi contare di farla franca “ope legis” grazie alla improcedibilità, degno succedaneo della prescrizione. Ma se la media prevista è del 50%, con tutta probabilità in alcune Procure l’improcedibilità raggiungerà percentuali superiori al 90.
Tanto è vero che la norma è stata modificata nell’iter parlamentare, escludendo dal beneficio i reati di omicidio, di mafia e di violenza sessuale aggravata (evidentemente quella semplice può restare impunita). Restano però inclusi nel beneficio tutti i reati contro l’ambiente e la pubblica amministrazione, gli omicidi colposi (compresi quelli sul lavoro o quelli del crollo del ponte Morandi), le truffe, le lesioni personali e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto, la nostra classe politica si è garantita l’impunità per i reati di corruzione e concussione, voto di scambio eccetera eccetera.
Quanto all’indipendenza della magistratura, questa era già stata minata dalla riforma Castelli-Mastella, che conferiva al capo di ciascuna Procura il potere di togliere le indagini dalle mani di qualunque procuratore aggiunto o sostituto, che abitualmente hanno la delega ad indagare e spesso sono organizzati per specifiche competenze. Piuttosto eclatante è stato il caso del procuratore aggiunto Robledo, che fu trasferito ad altro (e più innocuo) ufficio, mentre indagava su un appalto truccato dell’EXPO di Milano. Se ne è occupato in modo convincente “Report” il 13 giugno: è stato eloquente il ringraziamento pubblico di Renzi alla Procura di Milano e particolarmente significativa la reazione di fuga di Bruti Liberati (quello che trasferì Robledo, per capirci) alle domande del giornalista.
Questa subdola norma fu voluta dai “riformatori” Castelli e Mastella, nessuno dei due noto per essere un grande giurista, per ottenere una possibilità di influenza politica sulla magistratura inquirente. Ed è destinata, per così dire, ad essere perfezionata della riforma Cartabia. Questa prevede infatti che sia il Parlamento a stabilire le priorità di indagine delle Procure, le quali devono compilare il loro programma, da sottoporre all’approvazione del Ministero della (sic) Giustizia. Mai sentita una cosa così semplicemente idiota. Ma non si debbono indagare e possibilmente perseguire tutti i reati? E su che base si stabiliscono le priorità? E non viene alla ministra il sospetto che esistono anche i conflitti di interesse? E quanto tempo questo “iter” può togliere alle indagini e ai processi? Neanche nel ventennio fascista si era arrivati a tanto. Eppure Cartabia è giurista di fama: forse è altra la virtù che le manca.
Credo che per trovare altrettanta barbarie giuridica, o meglio politica, si debba andare indietro nella storia, fino alla giustizia delle “gride” e degli “azzeccagarbugli” descritta ne I Promessi Sposi.
A fronte di questi gravi problemi, non c’è da stupirsi che il referendum sia stato un totale fallimento.
Anzi, nessun referendum sarà in grado di salvarci dal baratro in cui il nostro sistema giudiziario è stato spinto.
Intanto continua la guerra in Ucraina.
Intanto la temperatura del pianeta continua a salire, mentre cominciano gli incendi e la siccità.
Che volete che vi dica: mi sento molto giù.
di Cesare Pirozzi