Cine-pillole: ingerire prima delle elezioni

di Riccardo Tavani

Rimini. Ancora nelle sale con pochi spettatori ma merita. Ritchie Bravo, spiantato cantante crooner, tedesco, si esibisce in lenti sentimentali nella sua lingua in un albergo a prezzi super scontati per i gruppi di anziani italiani in gita sulla riviera romagnola. Spesso arrotonda i magri compensi a mezzo prestazione erotiche con qualche ancora piacente ospite. Allo stesso scopo affitta anche la sua ampia casa a coppie di turisti, alloggiando abusivamente in qualche camera di hotel in chiusura stagionale. Sua madre è appena morta, suo padre vecchio nazi sulla frontiera estrema dell’Alzheimer, è in una casa di riposo. Una  Rimini come non la avete mai vista. Umida, fredda, nebbiosa con pioggia e neve. Desolata, a tratti squallida. Esattamente come è la vita di Ritchie. Il declino di prostituzione canora ed erotica, miseria, solitudine per lui sembra inesorabile. Poi qualcosa ritorna inaspettato dal suo passato, nelle sembianze di ciò che gli appare come la sua punizione e catastrofe finale. Eppure proprio questo segna uno stacco netto dal destino segnato del padre tra nostalgie di canti e bracci tesi nazi. Grande prova d’attore di Michael Thomas (II) e regia di Urlich Seidi.

200 Metri. A dispetto della breve distanza, lungo road movie per aggirare gli ostacoli nel cuore della geo-politica. Quelli del titolo sono i metri che separano moglie e marito al di là e al di qua del Muro d’Israele in Cisgiordania. Lui, Mustafa, non vuole richiedere il visto di lavoro israeliano per risiedere in un pezzo occupato della sua terra. Lei, Saiwa, si accontenta di scorgere da quella distanza le luci della sua finestra di sera e di stargli vicino con la voce al telefono. Un incidente della vita quotidiana, però, fa precipitare l’assurdità di tale situazione. Per colmare quella distanza di pochi minuti a piedi, deve intraprendere un rocambolesco viaggio di spazio e di tempo, politico ed esistenziale, con diversi mezzi trasporto ed espedienti, sul bordo scosceso tra la vita e la morte. È la condizione di vita degli stessi palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. E niente meglio del cinema – che in sé stesso mette in scena itinerari perigliosi – poteva raccontarlo.

Nope. Convincente fanta-soft horror in atmosfera vecchio west. Il pericolo non viene da zombie e viscere sataniche della terra, ma dal cielo, dalle nuvole. Muore improvvisamente e misteriosamente sul proprio destriero un vecchio e apprezzato – anche dai set cinematografici di Hollywood – allevatore e addestratore di cavalli. Cow-boy vecchio stampo sì, ma di pelle nera. Il suo ranch – isolato in mezzo al nulla – rimane nelle mani della sua multiforme figlia e di suo figlio, anche lui scabro, silenzioso, addestratore di cavalli, per niente apprezzato però dal cinema glamour americano. Presto si accorgono di qualcosa di strano. Installano antenne e telecamere, chiedendo anche a un regista famoso per aver filmato diversi eventi fuori dal normale. L’aspetto fantascientifico prevale nettamente su quello horror, il quale è solo un cascame secondario del primo. La metafora, però, è molto profonda. Il titolo, Nope, significa semplicemente: No. Ed è questo il messaggio che sembra provenire da lassù. No alla riduzione della originaria tradizione americana, alla paccottiglia della società dello spettacolo. Il giovane cow-boy nero avverte istintivamente di non dover temere niente da quegli esseri nascosti dietro una nube, perché il suo rapporto con quella natura brulla e con i cavalli è essenziale, non solo rispettoso, ma simbiotico. L’uno è l’aspetto equivalente dell’altro. Il regista che viene a riprendere quelle apparizioni usa una vecchia, gloriosa cinepresa a manovella riadattata da lui. Ma l’unica immagine che si riesce a fissare la extra-presenza è scattata con un arcaico sistema fotografico ancora in funzione dentro un villaggio western per turisti devastato – non a caso – dalla minaccia-liberazioneincombente lassù.

Top Gun – Maverik. Molto più che un ritorno dell’allora ventenne pilota Tom Cruise. Il pilota di super aerei militari Pete “Maverik” Mitchell dal 1986, con il regista Tony Scott, attraversa in un batter di volo Mach 10 quasi quarant’anni e, ormai sessantenne, indossa di nuovo il casco e sale a bordo nel nuovo, quasi omonimo film di Joseph Kosinski. Le medaglie sul petto e le stellette sulle spalline non hanno mai interessato il vecchio, eterno giovane Mav. Giovane, perché la trasmissione dell’abilità, dell’esperienza, del sapere e del talento di volo gli interessa trasmetterla ai giovani piloti che gli affidano per una missione pressoché suicida. E uno di quei ragazzi è proprio il figlio del pilota che per lui era più di un fratello e che nel primo film non è riuscito a salvare dalla morte. Riemergono nel nuovo plot brani del precedente, non tanto per nostalgia, quanto per sottolineare la continuità e l’attualità drammatica delle situazioni. Un espediente narrativo, inoltre, che imprime un più significativo spessore esistenziale ed emotivo a ciò che – come persona, maestro e pur sempre pilota attivo che rischia la pellaccia – Mav è ora. A parte certi scontati stereotipi patriottardi yankee e convenzioni più che trite di questo genere cinematografico, 131 minuti di suspense sempre in vertiginoso volo reale, con piloti reali, e non ridondante ricorso a digitale ed effetti speciali.

Fabian. Going to the Dogs. Buon adattamento sperimentale all’omonimo romanzo del 1931. La lunga vicenda sentimentale, esistenziale e politica di una coppia di giovani poveri amanti,  e del loro migliore amico, rampollo di una famiglia altolocata, nel rutilante mondo berlinese sulla soglia del tramonto della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo. Sperimentale per l’uso della macchina da presa in febbricitante movimento a spalla, ma che sul piano narrativo si rifà a modelli collaudati nella storia del cinema non solo tedesco. Tre ore di racconto alla Alexanderplatz, di Fassbinder, e anche di Heimat, di Reitz. L’impianto, infatti, non fosse per la delimitata fonte letteraria da cui attinge, potrebbe essere proprio quello a più capitoli e più film. La coppia, Jakob Fabian e Cornelia Battemberg, si amano alla follia. Lei, però, vuole emergere come attrice, cosicché un influente regista se la annette come sua protetta. Il nobile rampollo Labude, invece, presenta la sua tesi di laurea su Shelling, e intanto s’impegna politicamente per la difesa e il riscatto della classe operaia, ed è per questo ricercato dalla polizia. Tra i tre solo Jakob, che a spiccate doti di scrittore, sembra non aspirare ad  altro che silenziosa osservazione e testimonianza. Vivido è il ritratto della Berlino con i locali notturni dei giovani creativi, trasgressivi, ma anche dei loro contrasti con la borghesia crassa e bon viveur della città. La progressiva avanzata del nazismo verso il potere rimane solo sullo sfondo, ma è cadenzata ritmicamente, anche con preziosi materiali d’archivio. È proprio essa, però, che incarna via via i personaggi fisici che annegheranno, bruceranno le loro speranze. Sensibile prova attoriale dei tre principali interpreti.

Elvis. Biopic a elevato profilo stilistico. Sì, certo, anche se non il grande pubblico, magari i vecchi o nuovi fans di Elvis Presley potranno conoscere i tanti aspetti della sua vita che questo film fa riaffiorare o ci svela. Non però il potente impatto psicologico, emotivo, simultaneo tra le sue ambizioni, esibizioni musicali e i suoi attimi trionfali e micidiali, gloriosi e infernali, di amore eprostituzione, di ribellione e sottomissione. Questa connessione abissale la può far scoccare solo il cinema quando non si limita a mettere in scena la biografia di un artista, ma – per riuscirci bene – è esso stesso a farsi in primo luogo arte. E questo consente all’attore Austin Butler di non limitarsi a una imitazione – per quanto superlativa del personaggio che interpreta, ma prodigiosamente a esserlo. Dallo scatenamento erotico liberatorio del suo bacino, fino all’imprigionamento dentro le spirali della ragnatela del suo fatidico e fatale manager il Colonnello Parker, è tutta la parabola di Elvis the Pelvis in Memphis. Perché il Colonnello, ossia la personificazione della società dello spettacolo, era già dentro: l’inconscio, la voce, il bacino di Elvis fin da ragazzo. Ché sono questi i prodigi ricercati, anzi, da essa stimolati, ma solo ai fini del loro incatenamento e sfruttamento.

Fire of love. Incandescente documentario di passione umana e scientifica tra i crateri del mondo. Il fuoco e l’amore del titolo sintetizzano l’incredibile vicenda esistenziale, esplorativa e scientifica della coppia di vulcanologi Katia e Maurice Krafft. Nascono in località diverse dell’Alsazia francofona, ma ricevono fin da adolescenti il battesimo del fuoco vulcanico. L’una sull’Etna, l’altro sullo Stromboli, in una gita familiare negli anni ’60. Ne rimangono entrambi marchiati. Appena qualche anno dopo s’incontrano, si sposano e partono: per camminare sull’orlo d’ogni cratere del pianeta, entrare nelle loro crepe, nelle propaggini dello loro bocche. Vestiti con tute e caschi argentanti, fotografano, filmano i fiumi e le bombe di lava da distanza ravvicinata. Rompono i vecchi schemi classificatori, svelando la personalità individuale d’ogni vulcano nella propria irriducibile singolarità. I diari, le registrazioni audio, le foto, i filmati conservati nel loro archivio privato sono di un impatto iconografico e narrativo sbalorditivo. Un’ironia – quasi guasconain lui, più raffinata in lei – svela la loro lucida consapevolezza di camminare non solo sull’orlo d’un cratere, ma soprattutto su quello della loro possibile e nel caso atroce morte. Le tragiche conseguenze, con distruzioni ed ecatombi umane cui assistono, li spingono a cercare di definire sempre meglio i meccanismi e i tempi delle eruzioni. Per far prendere coscienza ai governi dell’importanza che hanno esplorazioni studi, insieme alle definizione misure di prevenzione e piani di evacuazione. Che enormi masse di materiale piroclastico sconvolgano periodicamente viscere e superficie della Terra si traduce e si riduce – in relazione al pianeta in sé – solo a riplasmarne in continuazione gli assetti morfo-geologici. Per quanto distruttive e pari a bombe atomiche si manifestino tali esplosioni. In relazione all’umano, invece, esse rappresentano una condizione e il riflesso della coscienza sempre sull’orlo d’una imprevedibile e irrefrenabile eruzione.

Crime of the future. Il ritorno di Cronemberg tra fascino cine-vintage e inaudite viscere sci-fi dell’umano. La scenografia è quella da post catastrofe sulla Terra. Tutto rotto, arrugginito, scalcinato, decolorato. La stessa immagine del film è leggermente sporca, quasi una patina di polvere sopra offuscasse la nitidezza della messa a fuoco. I mezzi tecnologici – da quelli elettronici a quelli medico-chirurgici – sono invece avanzatissimi. Ossia i mezzi della video art e della body art. Deformazioni, innesti di chips e altri dispositivi sotto la propria pelle sono un passato ormai neanche più rammemorabile e rappresentabile. No, la body art è ora direttamente l’apertura elettro-video-chirurgica del petto, dell’addome. Il selfie è direttamente alle viscere. Lo spettacolo sotterraneo è l’estrazione di neo-organi, inediti, inauditi, autoprodotti e poi classificati, archiviati in un ammuffito catasto nazionale centrale. Il personaggio cui dà corpo e budella Viggo Mortensen è questo sublime body-artist, seguito nelle sue esibizioni sia da remoto, sia dal vivo da spettatori adoranti, paganti e video muniti di devices da ripresa. Grande tenuta attoriale del personaggio, ma sono le donne che ruotano intorno a lui a offrire gli squarci esistenziali più conturbanti. Soprattutto Kristen Stewart, nel ruolo della vice direttrice dell’archivio centrale dei neo-organi. Alta lezione di stile e fascino cinematografico. I contenuti narrativi sono un denso pre-testo metaforico per staccare questa singolarità d’arte cinematografica.

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