Max Manfredi: Il Grido della Fata

Un CD da tenere  sullo scaffale in basso, vicino al lettore, accanto al tavolo da lavoro o direttamente sul comodino. Un CD pronto per l’uso, ogni volta che se ne ha voglia di ascoltarlo. E, si ha sempre voglia di ascoltarlo. Max Manfredi presenta alla Scarpetteria del Pigneto di Roma, il suo ultimo lavoro musicale, anzi cantautorale: Il grido della Fata. Max Manfredi, senza retorica, senza nostalgia, ci consegna un mondo conosciuto da pochi, ma riesce nell’intento di comunicarlo con la sua forza vocale “originalmente originale” e con la sua musica fuori dal tempo in grado di esprimere il significato della narrazione. Accompagnato da un bravissimo Bruno Zoia al basso/contrabbasso e un altrettanto bravissimo Davide Mengaretti alla fisarmonica, Manfredi da vita e anima a una serie di figure che sono protagoniste della narrazione stessa. Improvvisamente sappiamo di esistere da prima di essere nati, oppure una povertà che non sappiamo ci attraversa, ma c’è sempre il giorno in cui ci sfiora quasi senza peso la parola sfuggita, e spariglia l’ordine dei nostri anni e dei nostri sogni.

Oltre Gian Maria Testa, oltre Paolo Conte, oltre, ma molto oltre, Max Manfredi può sedere tranquillamente sull’Olimpo dei più noti cantautori, senza nessuna remora, anzi ricevendo il loro applauso. L’empatia vocale, l’arpeggio, la mimica facciale in armonia con le tonalità sonore raccontano quello che l’arte può fare.

Testi intensi, profondi, mettono alla berlina un mondo stereotipato per donare una speranza alla umanità allo sbando, riconsegnando un sogno, una utopia, unica ancora di salvezza per le emozioni altrimenti perse. Il grido della Fata inizia con “Scimmia Grigia” che non compare nel cielo come angelo di Galilea, ma ci impedisce di riconoscere il bene e il male. La Scimmia Grigia non esiste però mi segue. Canzoni e filosofia, vita vissuta e vita sognata, Manfredi crede nelle parole che fanno la differenza. Le sceglie per noi, ce le affida. Parole che ci accompagnano amiche. Chiamate a rendere nuovo ogni mattino che viene. Come Malvina che suona l’arpa per i ragazzi della terza età. Invitando a scendere dal Calvario della vita per essere ciò che si deve essere. È un traboccare di noi, il fiore di Elicriso, circostanza fortunata, dove tutto è provvisorio nel profumo che ci assale. Laringe, diaframma, bronchi, viscere anche, non importa, tutto fa corolla alla voce che si disperde senza fare i conti, segreto della vita non più nascosta del corpo che diventa quasi spirito, avviso di quel che sarà. Non si canta sopra il pianto del mondo, si canta per il mondo che resiste a volere una storia nuova. Con le sue canzoni, Max Manfredi affida al pubblico lo stupore del tempo che rimane, dell’amore che ci attraversa, delle montagne, delle nuvole, delle malinconie, parte vitale della esistenza.

Il Grido delle Fate è tutto questo, ma anche e soprattutto è “il farsi meraviglia” del nostro patire necessario che viene dal turbamento inquieto e curioso: il giorno riempie gli occhi la mattina.

Claudio Caldarelli