“Una persona alla volta”

Riflessione introduttiva su Gino Strada durante la presentazione del suo libro, “Una persona alla volta” svoltasi al Bohemian Art Cafè di Monterotondo.

Gino Strada.

Buonasera, sono qui con molto piacere, insieme a voi.

La mia partecipazione a questo avvenimento nasce in maniera un po’, come dire, estemporanea.

Sorseggiando un caffè con un amico.

Ti va di partecipare ad una iniziativa con Emergency…? Molto vagamente descritta.

Si, in linea di massima si

Qualche giorno dopo la proposta: Vuoi fare una introduzione su Gino Strada?

Ho detto sì, con qualche titubanza. 

Poi le perplessità. 

Il personaggio è noto, molto conosciuto.

Parlare di Gino Strada significa parlare anche di Emergency di cui è stato cofondatore e, nell’immaginario collettivo, personificazione della stessa. 

Superfluo, credo, considerando che i presenti sono sicuramente persone informate su Gino Strada ed Emergency, elencare le numerose strutture, distribuite nel mondo che soffre, quello che chiamiamo “terzo mondo”, realizzate da questa organizzazione. 

Basta aprire la pagina internet di Emergency per averne una idea: 

decine di iniziative, milioni di persone curate gratuitamente, e a cui viene restituita la possibilità di vivere, il diritto fondamentale, a cui tutti gli altri sono sottesi.

Come affronto l’argomento? Da dove lo prendo? 

Dall’unica posizione di partenza per me possibile: dall’esterno.

La mia visione di osservatore esterno interessato. 

Torno indietro, al tempo ormai lontano, quasi un trentennio, quando ho iniziato a sentir parlare di Gino Strada e delle iniziative di Emergency. 

Ho provato subito, si certo perché non dirlo?, ammirazione, e mi sono chiesto chi fosse, da dove venisse, il perché delle sue azioni, le ragioni del mio condividerle, quelle che mi hanno spinto a dare un piccolo contributo economico nel corso degli anni, che mi hanno portato a partecipare alla grande manifestazione del 17 aprile 2010, che, come disse Gino Strada in chiusura, “non è stata contro qualcuno, ma contro qualcosa: la guerra”.

La guerra, che Strada ha sempre abborrito forse anche perché, nascendo nell’immediato dopoguerra, (1948), ne ha potuto ascoltare il racconto di chi l’ha vissuta e subita, e constatare gli effetti ancora visibili durante l’adolescenza, siamo negli anni cinquanta.

Proveniva da una famiglia operaia, di una cittadina della cintura industriale milanese che veniva chiamata la Stalingrado d’Italia: Sesto san Giovanni.

Una città operaia.

Crebbe in una realtà sociale connotata ancora, come tutta la classe operaia italiana di quel periodo, da sopravvivenze della società contadina, come il vivere in una famiglia allargata o la consapevolezza di essere parte di una comunità.

Una famiglia di antifascisti, inseriti in un ambiente sociale in cui “respiravamo etica del lavoro, responsabilità, senso della comunità”. Una comunità di cui sempre si occuperà e che diventerà, partendo dalla sua prima esperienza di chirurgo di guerra in Pakistan, di respiro mondiale: la comunità di chi ha bisogno di cure, chiunque esso sia, qualunque uniforme indossi o qualunque situazione di povertà e degrado sia costretto a vivere.

Ospedali di guerra, ambulatori, posti di primo intervento, reparti di cardiochirurgia pediatrica di eccellenza, attività di formazione del personale come quelli messi in piedi nel più povero dei continenti: l’Africa. E non solo.

Tutte strutture dove la possibilità di essere curati è offerta a tutti, gratuitamente, perché il diritto alla cura e alla salute va a braccetto con il diritto alla vita, è in esso compreso. 

Penso al suo atteggiamento rispetto alle proposte di lavoro, economicamente allettanti, ricevute negli Stati Uniti e riassumibile nella domanda che si pone, e pone a tutti: “che senso ha praticare la medicina in un Paese dove per potersi curare la gente deve tirare fuori la carta di credito? Far soldi non è mai stato il mio obiettivo”

Tutte le opere messe in piedi hanno la comune caratteristica di essere poi trasferite alle autorità locali, dando un esempio di cosa significhi realmente, concretamente, aiutare sul posto chi ne ha bisogno. Ovunque esso si trovi, in Africa oppure in Italia durante il Covid.

Lo si potrebbe definire un santo laico che, proprio perché laico, si caratterizza non per l’aspetto sacro, sovraumano, miracoloso, ma per la sua capacità razionale di portare aiuto a chi soffre, disinteressatamente, senza indagare sui motivi della sofferenza. 

Questo dopo semmai. Prima curarlo. Questo è l’imperativo!

Preferisco però pensarlo e definirlo più laicamente, come un intellettuale organico, che si è istruito nel miglior modo possibile e con il massimo impegno.

Penso ad alcune sue frasi: “studiavo come un matto”, oppure “studiavo, studiavo, per imparare il più possibile…”: e alle sue azioni: mettere le sue competenze professionali e la sua capacità organizzativa al servizio del mondo che soffre per le guerre insensate, per il diffondersi di quella malattia sociale che è la povertà assoluta, che genera ogni sorta di patologie, negando salute e vita, dei bambini, veri obiettivi delle mine antiuomo, usate da tutti e il cui prodotto sono mutilazioni indescrivibili e… profitto per i fabbricanti di morte del mondo “sviluppato”, del nostro mondo. 

Un uomo che ha saputo percepire, fin dalla sua prima esperienza di chirurgo di guerra, il reale bisogno di quelle popolazioni di un luogo di cura su cui poter contare. Lo ha immaginato, non sognato, e reso realtà. Una realtà, che la popolazione ha fatto propria, l’ha pensata come sua e come tale; come elemento costitutivo del gruppo sociale, al punto che, e sono parole sue, “erano disposti a difenderla, in ogni modo”. 

Un uomo che ha fatto proprio il messaggio rivoluzionario della salute gratuita per tutti e ne ha lanciato un altro altrettanto rivoluzionario: quello di luoghi di cura, nelle zone più povere del mondo, e uso ancora le sue parole, “scandalosamente belli ed efficienti”, perché “non ha senso” portare in quelle zone il “meglio che niente”, ma “il meglio di quello che vorremmo per noi”, perché chiunque possa essere curato nel migliore dei modi. 

Gratuitamente.

Tutti.

Una persona alla volta. 

Come il titolo del suo libro più o meno autobiografico di cui ascolteremo adesso la lettura di alcuni passaggi.

Buon ascolto

Corrado Venti