L’arte è bellezza e libertà
L’immoralità della morale uccide l’arte della bellezza, in tutte le sue forme, trasformando il bello in osceno. Il pregiudizio, ancora largamente diffuso, vuole negare il concetto dell’amore quando travalica il genere. Ma la forza interiore di un storia raccontata dentro la storia stessa, supera e stravolge ogni ipocrisia mentale, rimettendo al centro della scena la poesia, l’ironia, la malinconia, la satira, ma più di tutto la “crudele verità” che uccide la bellezza.
Daniele Pecci, protagonista, regista, traduttore, del testo di John Gay “Divagazioni e delizie” liberamente tratto dal romanzo Sebastien Melmoth, rappresenta al teatro Parioli di Roma, l’ultimo anno di vita di Oscar Wilde.
Danile Pecci supera i vincoli dell’attore in ogni aspetto, recidendo il cordone ombelicale con il pubblico, per poterlo fagocitare nel sul ventre, dalla prima battuta alla chiusura del sipario. La maestosità recitativa di Daniele Pecci si innalza al disopra dell’Olimpo della recitazione: è semplicemente immenso.
Lo stesso Oscar Wilde avrebbe applaudito la sua performance, che è molto, molto di più di una performance. È la condanna all’ipocrisia, alla cattiveria, alla cialtroneria della morale borghese. Una morale immorale incapace di accettare l’amore e la purezza dell’amore in tutte le sue forme.
Oscar-Pecci-Gay si rivolgono direttamente al pubblico, esonerandolo dalla ipocrisia delle scuse, ma facendolo sentire “colpa” di quella immorale moralità che uccide l’arte e la bellezza. Le citazioni rendono fruibile e danno intensità ad ogni battuta, fagocitata da un pubblicato affascinato e ipnotizzato la potenza della recitazione. Una struttura narrativa che affonda le radici nella oralità che consente al protagonista di essere se stesso dentro i vestiti mentali di un uomo distrutto solo perché amava.
Un fiore verde appuntato sul bavero del frac è la speranza che viene trasmessa al pubblico, che deve redimersi dalla sua indifferenza, presente ancora oggi, contro ogni forma di censura. Daniele Pecci supera se stesso, rappresenta nei panni di Wilde, un Sebastien Melmoth, l’uomo errante, che possiede la materialità evanescente, di aggirarsi da un continente all’altro, con l’uso minuzioso delle metafore ad impreziosire ogni respiro. Temi e riflessioni che a due secoli di distanza sono più che attuali.
Il tempo viene scandito da movimenti lenti, accorati, dentro un corpo appesantito dal tormento e dal dolore, dalla sofferenza per l’ingiustizia subita. Per i torti di cui è innocente, ma per i quali viene condannato a d’essere il mostro del suo amore. La bella e la bestia, senza la bella, lasciano i residui di un uomo distrutto anche dal tempo che gli è stato rubato. Un tempo che non potrà tornare ma può essere utilizzato per far capire al pubblico-umanità globale, gli errori e le ingiustizie commesse in nome “del nostro bene”. Le torture fisiche e psicologiche, vengono trasmesse dal palco al pubblico, con tutta la intensa forza recitativa che rende reale il dolore provato dal protagonista.
Melmoth-Wilde-Gay-Pecci, possiedono una caratteristica che li accomuna, sono umani e come tali soffrono. Nella l’ora immensità, rappresentano gli eventi descritti, che nello stesso tempo sono una trappola strettissima ma anche e soprattutto la ricerca della libertà, sia essa culturale che fisica, sessuale o religiosa, individuale o collettiva. Rappresentano la libertà repressa di una umanità resa schiava dai poteri che vogliono mantenere il potere, rendendo mostruosa la bellezza, l’amore e l’arte.
Claudio Caldarelli