L’ombra della cenere
Raccontare la storia è sempre difficile, raccontare quei momenti non è come viverli, ma la narrazione delle testimonianze di chi ha vissuto di persona l’olocausto è importantissima per poter descrivere le atrocità commesse dai nazisti nei loro campi di concentramento. Molte sono state orali e altre sono state scritte, affinché chi le abbia ascoltate o lette possa continuare a ricordare quello che è stato un genocidio fatto da esseri umani contro altri esseri umani.
Io voglio in questo mio breve racconto essere l’anello di tanti altri che uniti possono contribuire a mantenere viva la memoria di ciò che è stato, quindi esso non è basato su una storia vera ma solo su quello che io vedo con la mente essere stata la vicenda di un ebreo deportato.
Il titolo che gli ho dato è “l’ombra della cenere”. L’ombra perché rappresenta ciò che è oscuro, ciò che è paura, mentre la cenere è quello che è rimasto di ciò che prima era, come una vita spenta, una vita distrutta, una vita bruciata.
L’ombra della cenere
Vedevo il fumo nero che copioso si alzava nel cielo grigio, c’era un odore dolciastro e nauseante che impregnava l’aria e penetrando nelle narici e nei pensieri richiamava l’odore della morte. Mi chiamo Aron e quell’odore non mi abbandona mai. Da mesi vivevo all’ombra di quei camini e a mia insaputa ero il testimone silenzioso di un orrore che sembrava non avere fine.
Ero stato deportato dal ghetto di Varsavia, dove vivevo insieme a mia moglie Miriam e ai nostri due figli, Jakob e Rachel. Ricordo che appena arrivati nel campo di Auschwitz, così si chiamava il luogo ove fummo deportati, venimmo accolti tra le urla degli ufficiali e dei soldati delle SS che ci smistavano, io non capivo con che logica, poi toccò a noi: mia moglie Miriam e i nostri bambini furono mandati subito alle docce, io da un’altra parte.
Dopo qualche giorno capii che non li avrei più rivisti, un compagno di baracca mi sussurrò la verità: non esistevano docce, solo gas. Ammazzarono i miei figli e mia moglie lo stesso giorno di arrivo in quel campo.
Non esistevo più come uomo e tanto era il dolore provato che il mio cuore si era fermato, batteva rallentato come organo in un corpo inebetito, batteva quel tanto che basta per mantenermi in vita. Nella mente tanta confusione mista a disperazione, tante domande senza risposte. E intanto quel fumo, che odorava di dolciastro e nauseabondo, ammorbava tutto anche le divise che ci avevano dato spogliandoci dei nostri vestiti puzzavano dello stesso odore, eravamo costretti anche a dormirci, somigliavano a pigiami a righe sembrava di dormire con la morte addosso.
I mesi trascorsero in un’agonia fatta di fame, freddo e paura. Avevo visto troppo: corpi ammassati come stracci, compagni di prigionia sparire uno dopo l’altro, il ghigno crudele delle guardie che si divertivano a infliggere dolore. Ma il peggio era stato quando mi avevano costretto a lavorare nei Sonderkommando, squadre di lavoro, composte da prigionieri, addetti al funzionamento dei crematori e delle camere a gas. Eravamo incaricati di svuotarle e bruciare i corpi nei forni. Le mani mi tremavano ogni volta che spostavo un cadavere, cercando di non guardare i volti, temendo di riconoscerne uno.
Poi, il mattino del 27 di gennaio del 1945, tutto cambiò. Il rumore dell’artiglieria sovietica si era fatto sempre più vicino e le SS avevano iniziato a fuggire. Quando i soldati russi entrarono nel campo, io rimasi immobile, incapace di credere che fosse vero. Dei 15.000/20.000 internati i russi ne liberarono 7.000 quelli rimasti vivi, io ero tra quelli. Mi misero una coperta sulle spalle, mi diedero del cibo caldo. Ma non riuscivo più a provare nulla.
La libertà non era stata un sollievo, ma una condanna. Senza una casa, senza una famiglia, senza più nessuno al mondo, mi ero trovato spaesato, ero un’ombra tra i vivi. I primi tempi a Cracovia, la mia città, erano stati i più difficili: la gente voleva dimenticare, voltare pagina, mentre io non potevo. Non riuscivo a stare in mezzo alla folla, ogni rumore improvviso mi faceva tremare, il profumo del pane mi ricordava la fame insaziabile del campo. Ricordo ancora la scritta al suo ingresso “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) parole che echeggiano nella mia mente e che ancora lacerano la mia anima.
Mi trasferii lontano da Cracovia cambiando anche nazione, andai in Francia. Fui aiutato da una associazione di sopravvissuti. Provavo a ricominciare. Trovai lavoro in una piccola bottega di scarpe, ma la gente mi guardava con curiosità, alcuni con pietà, altri con diffidenza. Gli incubi non mi lasciavano mai: di notte mi svegliavo urlando, rivedevo i forni, i corpi, i volti di chi non c’era più.
Un giorno, una giovane donna che era entrata nel negozio a differenza degli altri non aveva distolto lo sguardo dal mio numero tatuato sul braccio. Claire, così si chiamava mi disse “Mio padre era ebreo ed è morto in un campo di concentramento, non posso capire cosa hai vissuto, ma posso ascoltare.”
Fu la prima volta che parlai del campo, dei forni, di Miriam e dei miei figli. E parlando, per la prima volta, sentii che la memoria non era solo una condanna, ma anche una resistenza. Da quel giorno, iniziai a raccontare la mia storia nelle scuole, nelle università, ovunque mi chiedessero di farlo.
Il dolore non mi mai lasciato, ma almeno, raccontandolo, ho dato un senso alla mia sopravvivenza.
Ricordiamo il 27 gennaio di ogni anno come il giorno della memoria affinché non si viva più all’ombra della cenere.
Eligio Scatolini