Crisi coniugali e mediazione familiare

“Se posso vedere i figli ogni due settimane, se anche quest’incontri vengono ancora ridotti o resi difficili con miseri espedienti, se i figli vengono messi sulla strada come oggetti pronti per essere ritirati, e al ritorno vengono tirati via dentro casa dalla porta, se i bambini piangono quando “devono” venire, e piangono nuovamente ogni volta che li lascio, se anch’io mi sento spezzato dalla pena, dall’odio, dai sensi di colpa e dal dolore, alla fine è meglio risparmiare questi pesi a tutte le persone coinvolte; preferisco allontanarmi, così tutti possono ritrovare la loro pace” (H. Petri, Lasciare ed essere lasciati, Koine Nuove Edizioni, Roma, 1991). Queste dolorose testimonianze, testimonianze di incontri con figli sofferenti, testimonianze di carichi di dolore che inducono a scelte di passività, testimonianze di lutti che, soprattutto i padri, non riescono ad elaborare in quanto abbandonati a brutali liti legali, unitamente ai, purtroppo, ormai quotidiani fatti di cronaca nera che riportano tragici episodi di violenza familiare, spesso legati a contesti di mancata accettazione dell’evento separativo, dimostrano come il terreno giudiziario non sia il più adatto, anzi spesso controproducente, per la gestione di un conflitto intra familiare. Il conflitto inter-genitoriale, se accettato ed affrontato con modalità non violente può essere terreno di riconoscimento di sé e dell’altro, può essere occasione di cambiamento e di maturazione: la violenza è la conseguenza del rifiuto di un reale conflitto. Così il contesto giudiziario diventa il luogo in cui quella violenza, anche solo verbale, conduce ad esiti di sovente distruttivi sia del rapporto coniugale sia delle figure genitoriali.

Diventa allora palese l’utilità della mediazione familiare, quale istituto di natura cooperativa finalizzato a riorganizzare le relazioni familiari in tutti i loro stati patologici. Il mediatore aiuta la parte nell’accettazione dell’evento attraverso la razionalizzazione delle decisioni che la coppia dovrà adottare ai fini dell’intera riorganizzazione familiare: il suo compito più arduo sta nel riuscire a contenere il bagaglio emotivo di cui i confliggenti sono portatori, pesante fardello che spesso osta al raggiungimento di quello che possiamo definire come l’interesse primario dei genitori in lite, il benessere dei figli. La mediazione familiare rappresenta così “una ritualizzazione del conflitto coniugale, del suo riconoscimento/identificazione e della sua elaborazione/superamento, (…) un rito di transizione, di riconoscimento di un conflitto non sufficientemente “permesso” nei tribunali” (L. Parkinson, La mediazione familiare. Modelli e strategie operative, Centro Studi Erickson Edizioni, Trento, 2003). L’utilità della mediazione familiare si palesa, poi, nel momento in cui si invitano i genitori a parlare con i figli, al fine di raggiungere accordi pratici e linee educative comuni in merito alla crescita degli stessi ed alla gestione di una co-genitorialità attiva, obiettivo primario dell’azione del mediatore nelle operazioni di accoglienza e condivisione emotiva, di riconoscimento reciproco dei propri bisogni genitoriali, operazioni che costituiscono i momenti essenziali della mediazione familiare. Essa si presenta, quindi, come il più valido strumento propulsivo verso quel cambiamento culturale necessario a che la gestione e l’esito del conflitto familiare possa radicalmente mutare nella direzione della piena capacità di autoregolamentazione della coppia e della completa realizzazione del più profondo benessere dei figli.

Massimiliano Nisati, Professore Aggiunto di Diritto pubblico e Diritto civile dell’Istituto Universitario “Progetto Uomo” Aggregato alla Facoltà di Scienza dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma.

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