Artigliere Alessandro Ruffini, fucilato ingiustamente per un sorriso.

Sono Alessandro Ruffini. Sono nato il 29 gennaio 1893 a Castelfidardo un paese della Marche in provincia di Ancona. Sono morto il 3 novembre 1917 a Noventa Padovana, un paese del Veneto in provincia di Padova. Sono Alessandro Ruffini, soldato del Regio Esercito Italiano, artigliere al fronte della guerra più ingiusta (come se ci fossero guerre giuste).

La mattina di quel 3 novembre del 1917 la mia compagnia di artiglieria passava per Noventa Padovana. Alla mia squadra avevano assegnato un pezzo di artiglieria da campagna: un 75/27 a tiro rapido ma era dannatamente scarso di mobilità. Noi della squadra di artiglieri amavamo quel cannone, era sempre meglio sparare dal lontano che essere in prima linea con il nemico in faccia. Quanti morti avrà fatto il mio cannone non so dirlo, ma tanti, troppe perdite di vite umane per una guerra ingiusta. Perché sto qui? Perché devo sparare contro altri uomini? Nessuno mai me l’ha spiegato bene. Patria e onore, questo mi sono sempre sentito dire, ma mai nessuno mi ha chiarito bene il perché sto marciando con un cannone che è dannatamente incollato al terreno. Nella testa la mia terra, nelle scarpe il fango delle strade di Noventa Padovana. Al passaggio le donne e i civili del posto ci guardano con compassione, la stessa compassione che si da ai condannati a morte. Sono Alessandro Ruffini artigliere, vorrei gridare a quelle persone, sono qui a combattere una guerra ingiusta. Ma le parole non mi escono, stringo solo il mio sigaro tra i denti sentendo il sapore forte del tabacco andare giù per l’esofago trascinato dalla saliva. Il sigaro è il mio compagno. Poche volte acceso per via dei cecchini,  quasi sempre spento ma sempre tra i denti. Forse per scaramanzia, mi è andata sempre bene: spesso la superstizione in trincea vince sulla ragione. Mentre faccio questi ragionamenti mi scappa un sorriso involontario, un sorriso che trasforma una giornata d’inferno in un momento di vita normale e poi quelle donne a bordo strada che ci guardano, come si fa a non sorridere. Anzi alzo la mano e saluto.

Mentre lo faccio sento un colpo forte alle spalle non realizzo subito cosa mi ha colpito, odo le urla di un Generale che passava mentre sorridevo alla gente a bordo strada. Non volevo mancare di rispetto ad un alto ufficiale ma mi ha bastonato senza sé e senza ma.

Il generale mi redarguisce e si riscalda, inveisce e mi bastona. Non mi muovo. Sento le urla delle donne bordo strada che intervengono, sento dire da una voce: “questo non è il modo di trattare i nostri soldati”.

Ma il generale è infuriato e risponde risoluto: “dei soldati io faccio quello che mi piace”.

Forse era meglio che non prendessero le mie difese, forse erano meglio le bastonate per placare l’ira di quel Generale perché di punto in bianco mi fece trascinare dai suoi uomini fuori dalla fila staccandomi dal mio cannone per essere buttato a forza contro un muretto. Con il mio sigaro stretto tra i denti, intriso di saliva, guardavo e non capivo, fino a quando ho visto davanti a me un gruppetto di soldati, di miei fratelli d’arma, di italiani come me che mi puntavano il fucile contro.

Tutto si è fatto ovattato, le grida delle donne erano deboli, vedevo solo le gesta delle loro mani che imploravano quel Generale di non fucilarmi. Già perché stavo per essere ammazzato per un saluto, sorridendo, con il sigaro in bocca. La voce di un ufficiale grida “fuoco” sento appena il fragore dei fucili, poi più nulla. Sono caduto a terra come un sacco vuoto, morto stringendo tra i denti il mio sigaro. Stavolta non mi ha portato fortuna.

Sono l’artigliere Alessandro Ruffini nato il il 29 gennaio 1893 morto per mano amica il 3 novembre 1917. Tutti gli ufficiali del 280 artiglieria campale possono testimoniare il fatto.

Il soldato Ruffini in quel freddo giorno di gennaio ha avuto la sfortuna di incrociare il suo sorriso, sigaro tra i denti, con il Generale Andrea Graziani che nel corso della Grande Guerra sempre e dovunque si è distinto per la brutalità verso i sottoposti con fucilazioni, decimazioni e punizioni mortali.La triste vicenda di Alessandro Ruffini viene così raccontata dal giornale socialista “L’Avanti!” il 28 luglio 1919. Il generale Graziani, lungi dal fornire alcuna giustificazione all’evento nei giorni seguenti rincara la dose dalle pagine de “Il Resto del Carlino” e dello stesso quotidiano del PSI. Egli infatti sostiene che mentre era in piedi sull’automobile, ad osservare la sfilata delle sue truppe udì dei soldati “pronunciare ripetutamente – rivolti ad un compagno – le parole: ‘levati il sigaro, levati il sigaro.” Il Generale rivolse allora lo sguardo a Ruffini e convinto di scorgere sul suo volto un sorriso beffardo non ci pensò due volte a farlo fucilare.     “Valutai tutta la gravità di quella sfida verso un generale […], valutai la necessità, secondo la mia coscienza, di dare subito un esempio terribile atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia […] Legato il soldato dai carabinieri della scorta, lo ho fatto immediatamente fucilare contro il muro della casa vicina; tutto ciò si è svolto nel tempo di quattro o cinque minuti.” Nel tempo Graziani negò di aver fatto occultare l’accaduto e dichiarò solennemente che tutto ciò era avvenuto “per il bene della Patria in pericolo”.

Ma L’artigliere Ruffini non fu un caso isolato, si contano migliaia di soldati italiani passati per le armi sotto il peso di accuse infondate e mai accertate da alcun tribunale. Soldati che per piccole insubordinazioni,  una giustizia sommaria mandava a morte. Pagine nere di un’Italia in guerra, poco conosciute ma soprattutto poco confessate nonostante, come per la fucilazione di Alessandro Ruffini, di testimoni ce ne fossero tanti.

Si dice che una circolare degli alti comandi recitava: “la disciplina regni sovrana fra le truppe. Nei reparti che si macchiano di grave onta alcuni, colpevoli o non, siano immediatamente passati per le armi”. La storia però non lascia mai in sospeso i conti, bisogna in qualche modo regolarli, bisogna che i soldati fucilati senza colpa vengano riabilitati e quei nomi compaiano, insieme agli altri, sui monumenti ai caduti affinché siano onorati in ugual modo. Soldati anch’essi vittime di una violenza inumana che la guerra genera inesorabilmente.

di Tomassina Guadagnuolo