L’arte di ripartire dall’arte

Siamo al termine di un’epoca e già dentro le propaggini di un’altra. La guerra grande, come l’ha battezzata il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, è determinata proprio dalla fine del precedente assetto mondiale: quello fondato sull’egemonia della potenza economica e geo-politica degli Stati Uniti d’America. Trovare un nuovo equilibrio tra le potenze planetarie non è né immediato, né facile. Anche perché l’arte della politica, la più alta delle arti architettoniche, così come la definiva Aristotele, da tempo non è più tale. Da una parte la scienza e la tecnologia, dall’atra l’economia, quest’ultima non separata dalla prima, stanno scandendo le tappe del suo tramonto.

Un tramonto tutt’altro che idilliaco. La legge del profitto capitalistico minaccia sempre più le basi delle condizioni di sopravvivenza sul pianeta. Lo dimostrano i risultati finali di Cop 28, il recente vertice sul futuro sostenibile, tenutosi a Dubai e presieduto da uno dei massimi esponenti planetari dell’inquinamento da combustibili fossili. La transizione da questi ultimi a fonti rinnovabili è rimandata al 2050. Ossia guerra grande di trent’anni, almeno, contro le condizioni esistenziali dell’umanità e dell’intero ambiente naturale. La scienza e – soprattutto – le sue applicazioni tecno-digitali su ogni aspetto dell’economia e della vita quotidiana, terremotano quotidianamente i suoi stessi risultati del giorno precedente. Al punto che l’Intelligenza Artificiale Generale, ossia quella che trae dalla sua stessa logica più interiore la capacità di perfezionarsi, è ormai sulla soglia di auto svilupparsi al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo umano. Una situazione prospettata con preoccupazione da più di una delle stesse personalità al vertice scientifico e imprenditoriale del campo.

Un tramonto, però, è sempre un tramonto, incantevole o minaccevole che sia. Si deve soltanto cercare di non errare, smarrirsi in esso, come in un bosco, in una foresta al calare delle prime ombre serali. Occorre mantenere una bussola, dei riferimenti orientativi, valoriali di fondo. L’arte – con la A maiuscola se vogliamo – è un deposito non trascurabile, ma troppo spesso trascurato, di tali riferimenti. E lo è soprattutto nelle epoche di smarrimento, di incerto passaggio tra uno stato e l’altro del mondo. Immanuel Kant ha colto profondamento questo aspetto. Il culmine filosofico della sua cosiddetta rivoluzione copernicana, dopo quella sulla ragione e sulla pratica umana, lo tocca proprio con la Critica del giudizio. Critica, nel senso del metodo logico, sta per indagine, esame, vaglio attento dei diversi e anche contrastanti aspetti di una questione, di una situazione. Giudizio, in quest’opera di Kant, sta per facoltà di giudicare il bello, l’opera d’arte, ma anche il sublime, per poi passare alla Natura. L’estetica, ossia la capacità che ha ogni persona di percepire sensibilmente, in modo universalmente immediato, è una stato imprescindibile dell’essere. Senza di essa le due precedenti critiche della ragione pura e della pratica etica umana rimarrebbero solo alla superficie. Occorre discendere a questo sottosuolo più originario, interiore per retro illuminare logica, scienza, prassi, politica. E tecnica, aggiungeremmo oggi, proprio per il riflesso dominante sulla pratica cui questa attualmente assurge. 

L’essere, l’è, l’esistere, infatti, è sensibilità e intelletto: inscindibilmente. Ossia non perché quest’ultimo riceva dalla prima i dati fisici su cui poi applicare il processo elaborativo della ragione. Ma perché, per il fatto stesso di esserci, anche un sasso è già anche intelletto. Lo è quale composizione, concrezione materica di intelligenza fisico-chimica e cristallografica. E persino sensiente, come ormai dimostrato dalle ricerche sui minerali del Carnegie Institution for Science. Solo l’Arte, però, è quella che espone al massimo livello tale inscindibilità. Il genio artistico, come definito dallo stesso Kant, infatti, è già uno sguardo che parte da dentro, dal sottosuolo della materia intellettiva e sensiente, attraversandola per darle forma, per proiettarla sullo schermo di quel visibile che chiamiamo realtà. E in questo tragitto persino tragico, o sguardo-attraverso, per restituirci un contenuto di verità, l’arte non può fare a meno di intraprendere anche un processo di giustizia esistenziale. Quello che, in senso kantiano, la critica espleta nel vagliare, soppesare, giustapporre e comporre i diversi e anche contrastanti aspetti di una situazione, l’artista deve farlo con gli elementi caoticamente stratificati nel sottosuolo della materia vivente. Conferire forma d’arte, in ciò, significa precisamente fare emergere esteriormente ciò che necessariamente struttura originariamente l’essere. È tale traccia originaria che l’arte cerca di non smarrire mai. Per questo nel mutare, delle società, delle mode, dei secoli, delle civiltà essa continua a guardarci attraverso il sottosuolo, e noi – anche se nel sotterraneo del nostro inconscio – a non potere fare a meno di riferirci a essa. Tanto più consapevolmente dovremmo fare nello smarrimento grande, drammatico del presente.

Riccardo Tavani