Fosse Ardeatine, rileggere la storia

Nello studio della storia, tutti i fatti sono composti da dati, nozioni, numeri e localizzazioni geografiche. 

Sappiamo tutti, quindi, che quanto accaduto alle Fosse Ardeatine si riassume in dati/chi e come, nozioni/perchè è accaduto, numeri/335 morti, localizzazioni geografiche/Via Ardeatina, 174 Roma.

E’ sufficiente tutto questo per far nascere e coltivare una reale indignazione di fronte alle atrocità del passato? Basta la conoscenza storica per ottenere la consapevolezza che spinga le coscienze a non far ripetere quanto accaduto? Oppure è necessario un percorso che, con lacrime e sangue, ci obblighi ad immergerci nelle storie di ognuna delle vittime, nella condivisione delle sofferenze, nell’identificazione non anagrafica, ma umana, dei protagonisti?

Ognuno di noi sa, è un fatto storico che appartiene non solo alla città di Roma e sul quale, ormai da 80 anni, torniamo ogni anno, ma quanti di noi si sono soffermati a vivere  la storia di ognuno di quei 335 morti?

Per una volta fermiamoci a guardare i volti di quelle foto così datate. Andiamo sul sito del Mausoleo e consultiamo le schede di ognuna delle 335 vittime, leggiamo la loro data di nascita, calcoliamo quanti anni avevano il 24 marzo del 1944. Immaginiamo, ad esempio, Duilio Cibei, anni 15, poco più di un bambino, arrestato, tradotto a Via Tasso per 15 giorni, detenuto a Regina Coeli per un mese prima di essere caricato su un furgone, portato senza sapere nulla nella cava, fatto entrare insieme ad altri quattro (venivano uccisi a gruppi di cinque) nel corridoio che lo avrebbe portato all’esecuzione. Immaginiamo il cuore di un ragazzo di 15 anni nel non sapere cosa gli sta accadendo, nel sentire le urla di comando in una lingua sconosciuta, nel vedere le armi, nell’ascoltare, una volta entrato nella cava e in attesa dell’esecuzione, le grida di chi era entrato prima, nel distinguere i colpi di arma da fuoco e nell’avvertire il silenzio successivo. Nel sentire l’odore della morte, nel vedere i corpi scomposti sui quali si sarebbe dovuto ammassare, in ginocchio, in attesa del colpo alla nuca. Un ragazzo di 15 anni, poco più di un bambino. Chiediamoci se si sarà chiesto perché era li, se avrà avuto bisogno di una carezza, di un abbraccio, se avrà pianto e se anche per un solo istante, come ogni ragazzo, avrà avuto nostalgia del sorriso della madre.

Gabriella Polli, figlia di Domenico Polli, testimonia con le sue domande lo smarrimento che devono aver provato quei 335 condannati al massacro e pensando al padre come  l’uomo forte e determinato che aveva conosciuto, si interroga sulla paura che deve aver vissuto. E’ lancinante la conclusione alla quale arriva rispetto alla perdita di dignità umana quando questa viene sopraffatta dal terrore: …”che vergogna sentirsi pecore vicino a quei lupi…”. 

Ditemi se ora, guardando i vostri figli e ricordando i vostri padri, la storia delle Fosse Ardeatine non vi suggerisce più rabbia, più indignazione, più dolore di quanta ne abbiate provato in tutti gli anni nei quali l’avete studiata.

335 vittime, 335 uomini ai quali, spesso, si dimentica di associare la vittima numero 336, Fedele Rasa, una donna di 74 anni sfollata a Roma, che si trovava casualmente, nel luogo dell’eccidio. Cercava cicoria nei campi accanto e fece l’errore di avvicinarsi troppo al luogo dell’esecuzione. Un militare tedesco le intimò di non avvicinarsi, ma Fedele non sentiva bene e fece la cosa più naturale che avrebbe fatto qualsiasi donna anziana. Poggiò il cestino con la cicoria sulla strada e si avvicinò per cercare di capire cosa volesse dirle quel militare che poteva esserle nipote. Facile immaginare il gesto del pulirsi le mani sul grembiule in uno scorcio di povera dignità. Il protocollo era stato superato: due intimazioni di stop, alla terza partì la raffica di mitra. Morì il 25 marzo all’ospedale San Camillo. 335 uomini e 1 donna. Pensate a vostra nonna, ricordate il sorriso e la fiducia che aveva nei confronti dei volti di quelli che erano più giovani e chiedetevi, ora, se questa è la stessa storia di cui avevate sentito parlare.

335 uomini e 1 donna, morti per il massacro delle Fosse Ardeatine a cui si aggiungono un numero imprecisato di vittime sopravvissute, anche loro donne, madri, figlie, mogli, sorelle, alle quali restava lo strazio del riconoscimento, il carico del dolore e la sopravvivenza della famiglia.

Ed è stato grazie alla fermezza di quelle donne distrutte in un lutto che strappava le carni, che ognuno di quei corpi ha potuto avere degna sepoltura dopo essere stato identificato. 

Vera Simoni, figlia del Generale Simone Simoni, anche lui trucidato alle Fosse Ardeatine, insieme alla madre si fece immediatamente portavoce dei familiari delle vittime, pretendendo il riconoscimento delle salme e degna sepoltura per ognuno di loro e ci riuscì per la quasi totalità. Perchè quando non ti rimane più niente di chi hai amato, hai almeno il diritto di avere un luogo certo dove piangerlo.

Lia Albertelli, moglie di Pilo Albertelli, ci ha lasciato testimonianza di questa forte e incisiva presenza femminile, nei suoi versi:

Vi hanno ucciso qui dentro

ammucchiati in una di queste fosse

coperti di terra.

Le grotte sono tanto buie e profonde.

Dove siete? Dove v’hanno lasciato?

Se ne sono andati

e non vi hanno neppure guardato.

Camminiamo a tentoni sotto le volte pesanti,

l’aria grassa riempie la bocca

e smorza il respiro.

Ci sorreggiamo una all’altra

tenendoci per mano.

Siamo poche spose

e con noi è una sorella e una madre.

C’è da chiedersi allora se la storia, affinché non si ripeta, non meriti il sacrificio dell’approfondimento umano da parte di ognuno di noi. C’è da chiedersi se, vivere il male dell’altro, non sia la soluzione per non rimanere indifferenti di fronte alle sofferenze attuali. C’è da chiedersi se il rifiuto di tanto dolore, non possa trasformarsi in una energia che tenda ad eliminare il sacrificio delle vittime di oggi. Forse, se questo si realizzasse, di fronte ad un nuovo barcone affondato, a un nuovo genocidio, ad una nuova bomba esplosa, non adotteremmo l’indifferenza che si riserva alle notizie già note e potremmo scoprire che, nello studio scolastico della storia, le cose così banalmente umane, non possono essere trasmesse da dati, nozioni, numeri e localizzazioni geografiche.  Allora non ci rimane che il dovere di cercarle e sentirle nostre.

Lucia Salfa

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