L’attivista Alganesh Fessaha e la sua voce per tutti i migranti

Battersi per la pace per Alganesh Fessaha è aiutare i migranti vittime delle guerre dimenticate e ridare loro dignità e speranza. Denuncia da decenni gli orrori delle rotte migratorie che dal Corno d’Africa attraversano il deserto e arrivano in Europa dal Mediterraneo. Non lascia tranquille le coscienze assopite e una politica indifferente richiamando, soprattutto con i fatti, le ingiustizie e le persecuzioni che provocano esodi. Come, ultimamente, la guerra dimenticata in Tigrai con i suoi 600 mila morti e gli indicibili stupri etnici. E ancora la dittatura in Eritrea. 

Alganesh Fessaha è sempre stata la voce dei migranti, di quei flussi di disperati che approdano da qualche parte solo se la fortuna li assiste, vite senza più sogni, abusate, minacciate, torturate. E quando il presente è già morte e non si vede futuro, si è disposti a tutto, si osa per un granello di fortuna. 

Persino la morte non farebbe differenza con una vita negata e mai vissuta.

A Lampedusa ha passato mesi dopo il 3 ottobre 2013 ad accogliere e ascoltare i superstiti del naufragio, eritrei come le vittime. Ha rischiato la vita per liberare i profughi rapiti nei deserti del Sahara e del Sinai dalle galere dove chi fugge dalle dittature e guerre del Corno d’Africa è stato rapito e violentato, torturato dalle gang di trafficanti spesso legate ai governi e ai jihadisti in una rete criminale ancora misteriosa. 

Eppure questa donna minuta, determinata e coraggiosa è andata alla radice del traffico di esseri umani, il terzo business illegale mondiale, generato dai conflitti predatori e dalle persecuzioni. 

Alganesh Fessaha, attivista italo eritrea, da oltre 20 anni con la sua Ong “Gandhi Charity”, composta da donne africane e italiane, di vite ne ha salvate migliaia. 

Anche la sua vita è particolare. Era una manager in carriera di origine eritrea di una grande azienda laureatasi in Italia. Poi è diventata doctor Alganesh, come la chiamano i profughi, medico ayurveda che li ha salvati dalle prigioni del Sinai in Egitto e da anni è riferimento per i viaggiatori della speranza come per i bambini del Benin e della Guinea Bissau, in Africa occidentale, dove ha aperto scuole che consentono ai più piccoli di studiare e consumare almeno un pasto al giorno. Per queste attività ha ricevuto molte onorificenze, tra cui l’Ambrogino d’Oro milanese ed è stata insignita del titolo di Grand’ufficiale dal Capo dello Stato. 

La sua lotta per la pace è cominciata in Sudan, alla fine del ‘900. Ci racconta: “Ho ritrovato me stessa davanti a un gruppo di ragazzini eritrei i cui genitori erano stati uccisi durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea, loro avevano tra i 4 e i 13 anni, erano diventati fratelli di strada. Chiesi loro se potevo aiutarli, si rifiutarono per orgoglio ma dopo tre giorni accettarono. 

Aiutarli è stato il modo di oppormi alla guerra, alla violenza cercando di dare a queste vittime innocenti un futuro diverso”.

Un aiuto proseguito soprattutto nel Sinai alle vittime del mostruoso traffico di esseri umani e di organi. 

Ad aiutarla uno sceicco salafita che all’inizio non voleva nemmeno incontrarla e parlarle in quanto donna e di un’altra religione. Ma Alganesh Fessaha non lo ha respinto perché la salvezza dei prigionieri era prioritaria. Con lui, Sheikh Mohamed, hanno collaborato anni per salvare i sequestrati dalle celle dei sequestratori beduini. Chi non pagava i riscatti veniva ucciso e gli venivano espiantati gli organi per rivenderli al mercato nero. Andavano di notte nel deserto a liberarli mentre i carcerieri dormivano o erano ubriachi. Hanno salvato circa 800 persone. Oggi Sheikh Mohamed la chiama mamma quando si sentono. Come i profughi che hanno salvato insieme. Il potere dell’amore, della compassione e della disponibilità può farci raggiungere insieme la pace,

che va costruita insegnando al bambino cosa vuol dire aiutare il prossimo, non restare indifferenti. 

Le donne possono essere il filo conduttore per la pace se rispettate e valorizzate.

I valori della donna sono immensi, penso al maternage, all’amore della madre per il figlio. Se venisse riconosciuta e promossa la leadership femminile in politica e in diplomazia ci sarebbe più pace, perché la donna rifugge dal sangue e dalla violenza. Quell’istinto materno insito in quasi tutte le donne, le porta ad aiutare, a tendere la mano, a diffondere amore e speranza, a lenire le sofferenze. 

Le donne sono le vere promotrici di pace e amore, nelle proprie vite e in ogni parte del mondo.

Stefania Lastoria