Una croce che si chiama centrale elettrica

Non sarebbe certo questo il primo articolo che scrivo sulle morti dentro il lavoro. Ma quanto accaduto nella centrale idroelettrica di Bargi sul lago artificiale di Suviana, con i suoi sette decessi e i cinque feriti, mi scaraventa in uno stato d’animo del tutto particolare. Non avevo ancora sei anni quando mio padre è morto dentro la centrale idroelettrica elettrica in cui prestava servizio nel turno di notte. Se molti sono, su questa terra, i poveri cristi cui viene assegnata una croce da trascinarsi nel corso della vita, a me era stata assegnata quella. La morte che – sulla tenera soglia della prima ragione infantile – ti viene ad abitare dentro come inquilina tanto abusivamente stabile, quanto inquietante. E non c’è niente e nessuno che la possa cacciare via. Ci devi convivere. E non ero certo il solo a soffrire atrocemente di quella scomparsa, ma qui conta il faccia a faccia, l’interrogazione abissale cui l’esistenza mette senza scampo davanti a te. Ossia chiede una risposta soltanto tua. Perché quell’inquilina parassita che ti è entrata dentro revoca in discussione tutto quanto ruota, vortica attorno e fuori di te. C’è solo la certezza di quel tuo interiore, cartesiano cogito ergo sum, che può essere convocata a rispondere. 

Oltre leggere i resoconti giornalistici sull’esplosione nella centrale di Bargi, ho provato a sentire direttamente qualche tecnico di mia vecchia conoscenza. Dall’odore di olio bruciato avvertito da un operatore riuscito a salvarsi, si potrebbe pensare che a esplodere sia stato l’alternatore posto all’ottavo piano inferiore, in asse con la turbina in prova posta al piano inferiore che stava andando al massimo regime. Per altri, invece, un guasto meccanico con fortissime conseguenze dinamiche si è verificato proprio in questa turbina. Il solaio tra piano -8 e -9 (~ 40 metri sotto) è comunque parzialmente crollato, provocando una potente fuoriuscita idrica dalla turbina e l’allagamento di quello inferiore, situato – come anche gli altri piani – a un livello inferiore, ma esterno alla superfice del lago. Gli inquirenti hanno ora in mano il sistema Scada, ossia la traccia elettronica di tutti i parametri attivi in quel momento nell’impianto. È  l’equivalente della cosiddetta scatola nera. L’inchiesta si presenta lunga e difficile, come tante, troppe altre in precedenti casi simili. Come, d’altronde, è stato anche per la scomparsa di mio padre, mai del tutto chiarita.

La croce, ovviamente, non è stata solo nel senso del tremendo calcio esistenziale ricevuto in piena faccia e sui denti da un bambino, e dall’ombra dolorosa impressa per sempre al senso stesso di essere venuto a questo mondo. No, la croce è stata anche sociale, ossia pratica, materiale, economica. Mio padre era solo un operaio elettrico, lasciava una giovane ragazza con due piccoli figli e un altro ancora in pancia. Non voglio e non sto parlando di quello strazio per porlo al di sopra di molti altri, di certo anche assai più atroci. Sto solo affermando che l’inseparabilità di croce esistenziale e croce sociale, materiale è un che di attinente non a me in quanto singolo, ma a me in quanto coscienza che non può che avvertire, percepire, riflettere il carattere universale dell’intera civiltà in cui siamo tutti immersi. 

Lo scopo primo e ultimo del capitalismo è l’estrazione del profitto. Non per chissacché di umanamente malvagio, ma per una legge altrettanto pratica, economica, riguardante il capitale, ossia i soldi investiti nell’impresa. Qualsiasi altro valore, ugualmente pratico, o anche morale, esistenziale, ostacoli il conseguimento pieno del profitto capitalistico, non può che essere posto in secondo piano, attenuato il più possibile, tendenzialmente eliminato. Sicurezza sul lavoro, tutela dell’ambiente naturale, rispetto di vari tipi di normative sociali, amministrative, commerciali, fiscali: ognuna di queste singole voci e la loro somma comportano un costo, che intacca di una quota apprezzabile il monte profitti finale, ossia discretamente – lo diminuisce. Lo diminuisce, ma non intacca sostanzialmente il suo accumulo totale. La catena di morti sul lavoro, delle ricorrenti catastrofi ambientali, di scandali, truffe, devastanti bancarotte economiche derivano da questa semplice, ma imperiosa, imperiale legge capitalistica, elevata al contempo a ideologia dominante: ostacolare, annullare il più possibile l’azione diminuente di questi extra costi considerati alieni, estranei allo scopo essenziale di estrazione lucrativa finale.

Il capitalismo, però, rappresenta anche l’acme economica e tecnico-produttiva raggiunta dall’intera civiltà occidentale, la quale si è imposta poi in tutte le altre parti, culture e civiltà diverse del mondo. Non c’è dunque aspetto della vita planetaria presente che sfugga all’influsso di tale vertice. Potrebbe farlo la guerra? Vero, le guerre ci sono sempre state, ma nell’epoca del capitalismo esse rappresentano il massimo di potenza estrattiva del profitto. Merci vertiginosamente massicce e tecnologicamente sempre più costose, ma provvidenzialmente non più esposte ai rischi del mercato, perché ordinate, consumate e garantite direttamente dalle immense casse, ossia tasse dello Stato. Casse e tasse distolte da altre spese socialmente fastidiose, e finalmente dedite sempre più alla produzione di profitto capitalistico privato. 

Ritornando all’iniziale croce-ombra esistenziale, essa non può dunque che essere indissolubilmente legata alla coscienza della produzione di lutti sociali a mezzo volontà di profitto. Il quale, poi, è un aspetto del vertice raggiunto da quella più generale volontà storica di elezione di soggetti deboli per la loro conseguente sopraffazione, sottomissione.  Si configurino tali soggetti in etnie, razze, generi sessuali e la natura, la Terra stessa, esattamente ciò è quello che chiamiamo ancora – civiltà. Non dovremmo più farlo, ma iniziare a svelarne, testimoniarne un’altra nascosta, dimenticata, sotto la superficie idrica della coscienza.

Riccardo Tavani

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