Etica delle rotte e delle flotte di terra

C’è qualcosa nel cosiddetto “umano” che sbocca per via di caverna direttamente nell’inumano. L’umano è propriamente negazione. Il piccolo, micidiale operatore logico-grammaticale che egli pronuncia – il no – caratterizza la sua unicità biopsichica in tutta la natura che lo avvolge. È l’unico essere dotato di linguaggio parlato e dunque necessariamente della capacità di “negare”. Tale negazione originaria arriva a negare anche un altro uomo. “Questo NON è uomo” è la negazione applicata dall’umano nella sua storia di stermini ed eccidi per cancellare il suo simile. Ma non bisogna chiamare questo “inumano”, perché anzi è invece propriamente “umano, troppo umano”, nel senso più stringente della parola. Niente di più errato, quindi, che scomodare i termini “umano/inumano” nel dibattito sulle migrazioni. Troppe sono le aporie in cui ci si imbatte immediatamente. Le rotte e le flotte di mare che imbarcano migranti – salvando loro la vita dal pericolo incombente del naufragio – si limitano a riversarli in massa sulle coste meridionali di Grecia, Italia e Spagna. Molti di essi aspirano al Nord Europa, ma le varie frontiere settentrionali del continente sono sempre più ermeticamente sbarrate. Dal momento dell’ingresso nei CIE (Centri Identificazione ed Espulsione) il destino di una consistente quota di questa moltitudine è già completamente segnato: un genocidio sociale, culturale ed economico. Salvati fisicamente dalle onde, ma “umanamente” sommersi, affondati nelle zolle delle nostre campagne o nell’asfalto delle nostre città. Qui, infatti, restano loro scarsissime possibilità di una prospettiva di dignità esistenziale. La soglia della polvere e del marciapiede è quella della loro riduzione al livello sub-umano. Un appello e un ricorso al cosiddetto “umano” che conseguono il risultato del sub-umano dimostrano già tutto il loro tragico errore di partenza. Dimostrano anche la concezione puramente fisica, oggettuale dell’essere, di qualsiasi essere esistente, oltre che di quello umano. La vera, più abissale negazione operata dall’umano è insita proprio in questa concezione meramente cosale dell’essere. Se ogni essere esistente è una cosa, allora la si può e la si deve manipolare, trasformare, annullare, per mezzo del lavoro o della guerra.

Tale neo sottoproletariato sub-urbano e sub-agricolo, risultato di una nuova forma di genocidio culturale e sociale, è vistosamente sotto gli occhi di tutti in molti angoli delle nostre città e provincie. Ossia: come spesso accade alle pretenziose intenzioni del cosiddetto “umano”, la cura si dimostra peggiore del male che intende curare. Per questo bisognerebbe sempre sottoporre le proprie azioni all’analisi di una “etica della responsabilità” che ci mostri preventivamente gli effetti pratici del nostro agire. Ora – però, dato che la spinta migratoria e le sue ragioni strutturali non sono destinate a cessare –, una costatazione degli effetti pratici si può fare anche a posteriori, sulla scorta dell’esperienza acquisita, per tentare altre vie, altre rotte. Cosa questa che non ha nulla che vedere con le odiose quanto deleterie iniziative giudiziarie contro le ONG.

Acquisito che il vero problema è il progressivo sbarramento delle numerose frontiere settentrionali che frammentano ancora di più l’Europa – a dispetto della sua proclamata unità – i corridoi “umanitari” sul mare, che di fatto molte ONG vengono a costituire, non bastano più, se uno degli effetti conseguiti è il ghetto del sub-umano euro-meridionale. Occorre un loro prolungamento via terra.

Allora sembrano necessarie più flotte di terra che di mare. Flotte di automobili e pulmini che aggirino tali confini continentali interni, venendo di fatto a configurare uno spazio europeo aperto. Un po’ sul piccolo ma prezioso esperimento alla base del documentario di Gabriele Del Grande “Io sto con la sposa”, che attraversa tutta l’Europa e i suoi confini, fino alla Svezia, con un gruppo di migranti a bordo di un pulmino.

Un continente libero da frontiere verrebbe infatti a delineare la più grande entità geo-economica del mondo, in grado di assorbile e dare una prospettiva di dignità esistenziale a tale flusso. Secondo le stime macroeconomiche di diverse università, tra cui quella di Harvard, un’abolizione dei confini inter-europei determinerebbe un incremento del 70% dell’economia su scala mondiale e una massa monetaria continentale di 35 trilioni di dollari, addirittura 39 in 25 anni per il Word Economic Found. Questi dati sono riportati anche nel film documentario “Stanger in Paradise”, presentato recentemente al Salina Doc Fest e di cui – insieme a quello di Gabriele Del Grande – parliamo in “Arte Cultura Cinema”.

Questa prospettiva è anche l’unica in grado di garantire che non si determinino altre odiose e conflittuali linee di confine intestine alla società tra gruppi o ghetti etnici. L’apertura dello grande spazio europeo dovrebbe infatti corrispondere a una conseguente apertura della nostra etica e civiltà verso nuove dimensioni e inediti paradigmi, e non verso un ulteriore suo asserragliamento bellico.

di Riccardo Tavani