L’Era del cinghiale zoppo

Cronache dal sottosuolo

Sì, molti provengono da fuori in questa epoca di migrazioni, ma io sono andato anche “sotto”. Vivo nel sottosuolo: metrò, gallerie, grotte, cunicoli, sottoscala condominiali o ministeriali. Non domandatemi da quando, come e perché. Mi si è rovesciato il tempo, la ragione e la memoria. Dai frammenti di giornali, frasi e follia che, come percolato d’immondizia umida, filtrano fin qui sotto le budella della città, mi risale violenta la nausea, il vomito per il vecchio mondo abbandonato sopra l’asfalto. Chiamatemi Pazzo, Rozzo, Sozzo, oppure Lezzo, per l’odore delle mie carni e dei miei cenci di cimici, merda e fango.

Mi giunge l’eco cavernosa di un cinghiale biondo che ha preso a grugnire dalla costa est alla costa ovest di quella che fu terra selvaggia di bisonti e pellerossa. Avrebbe intenzione di urtare, travolgere, far rotolare tutto giù per terra. Poi alzare muri, erigere barriere doganali, cacciare gente.

Il mondo di sotterra è interamente, spazio-temporalmente connesso da una “fibra buio-ottica”, più rapida e capillare di quella sovrastante. Da trafori, gallerie, cunicoli sotterranei sbuca di tutto. Anche un cinese. Anzi, emana talmente un lezzo uguale al mio, che non capisco più se sono io stesso quel cinese. “1.120 miliardi di dollari”, mi dice il muso giallo. Ossia me lo dico da solo, sbattendo attonito i miei occhi a mandorla.

A Natale 2016, questa è la somma del debito Usa nel portafoglio di Pechino. Debito sotto forma di titoli di stato – Tresauries – emessi su scala internazionale dal Governo americano per coprire tutti i tipi di spese dell’amministrazione centrale, dei suoi 50 Stati Federati e delle famiglie che accendono mutui e usano carte di credito a go-go. Una massa debitoria pari ormai a 19.000 miliardi dollari. I titoli posseduti dalla Cina sono scesi di 41,3 miliardi negli ultimi sei mesi e ha fatto salire così il Giappone a primo paese detentore di debito pubblico Usa. La quota giapponese, infatti, è scesa solo di 4,5 miliardi, attestandosi a 1.130 miliardi di dollari di debito americano posseduto.

Perché cinesi e giapponesi – anche se in misura diversa – stanno vendendo parte dei titoli di stato americani così ingentemente accumulati? Sbuca da un altro cunicolo pieno di melma e carta straccia uno dei falliti di Wall Street ai tempi del crollo della mega banca Lehman Brothers. Gli pulisco la faccia con un po’ di quella carta straccia e lo sento sussurrarmi con la mia stessa voce che i due stati orientali comincialo a vendere titoli Usa proprio come ruvido avvertimento a Trump contro le sue ipotizzate barriere commerciali. La vendita di quote più massicce, infatti, porterebbe a una svalutazione di moneta cinese e giapponese lo yen, lo yuan, e a rendere ancora più economiche le merci asiatiche proprio sul mercato americano.

Certo, anche e soprattutto la Cina rischia in questo gioco di deprezzare troppo la sua valuta, facendo impennare inflazione e bolle speculative interne, ma ci sono altre carte nella sua manica. Il muso giallo e il fallito di Wall Street alzano la mia voce e la fanno rimbombare lungo tutta la intricata rete cunicolare della fibra buio-ottica sotterranea. Molti prodotti “made in Usa” – urlano – sono in realtà assemblati, quando non addirittura fabbricati in Cina, come i famosi cappellini rossi a visiera dei seguaci del Cinghiale Biondo. Gli ancora più celebri iPhone, sono sì progettati in California ma montati a Shenzhen, nella super tecno-fabbrica cinese Foxconn. Se questo non bastasse, il Dragone di Pechino ha messo direttamente i piedi dentro il piatto del mercato americano, con molte partecipazioni azionarie intrecciate e comprandosi aziende strategiche per oltre 70 miliardi di dollari, riservandosi così la possibilità di manovrare e sferrare un micidiale gancio per ritorsione dall’interno del territorio yankee.

Da uno degli infiniti rigagnoli che scorrono nel sottosuolo rotola giù una ponderosa lattina di birra Asahi. Il fallito di Wall Street, il cinese e io la afferriamo, stappiamo, scolandocela e poi ruttando all’unisono come una sol levante persona. Il rutto passa da parte a parte tutto il diametro terrestre e sbuca dall’altra parte del pianeta, proprio come la fusione nucleare prevista dalla mitologica “sindrome cinese”. Brindammo all’Era del Cinghiale Zoppo.

Non solo per il quadro geostrategico finanziario planetario, Donald lo sarà cinghiale sciancato, ma anche per la crescente opposizione sociale, politica, giuridica interna agli Usa, per la propensione degli stati federati americani ad una propria azione indipendente dalla Casa Bianca, per la viscerale idiosincrasia contro di lui interna allo stesso Partito Repubblicano che può arrivare fino all’impeachment, ossia alla sua messa sotto accusa da parte del Congresso.

D’altronde, dalle nostre parti abbiamo un mastodontico Cinghiale Continente Zoppo: l’Europa. E ancora più, nel nostro piccolo, un Cinghiale Paese Zoppo. L’attuale governo Gentiloni lo è. La Corte Costituzionale ha azzoppato la cinghialesca legge elettorale detta Italicum. Qualsiasi esito uscirà dalle urne avrà il marchio DOP del Cinghiale Zoppo, uguale uguale ai pingui suini neri con fascia bianca della Cinta Senese (nome scientifico Sus Scrofa Domesticus).

Noi che ci siamo ritrovati divinamente a vivere nelle viscere putride e senza confini dei sotterranei inneggiamo a questa nuova catastrofica era storica: è il massimo cui i popoli possano oggi aspirare. Essendo gli Stati sovrani ormai aggirati, presi in giro, sbeffeggiati, umiliati dallo tsunami spietato della tecno-finanza globale, la quale li assoggetta a sé e li costringe alla propria violenta prassi della crisi permanente, meglio fare a meno di questo rudere amministrativo del passato. Meglio tornare a regolare i conti nel sottosuolo originario, sopra il quale sopravvivono ancora tremolando ipocrisia, post-verità, superficie vana dell’asfalto reale e virtuale.

di Riccardo Tavani