I prigionieri del passato

Come non parlare, anche quest’anno, del 25 aprile? È una ricorrenza che, nonostante i 79 anni trascorsi, ancora si carica di un significato politico improprio, quasi fosse una Festa “di parte”, come diversi politici della cosiddetta “seconda repubblica” hanno sostenuto e continuano a sostenere.

Eppure non è difficile capirne il significato, che non riguarda una qualunque parte, ma tutti. Non è, infatti, solo la Festa della Liberazione dalle truppe naziste che occupavano il nostro territorio, né dal governo fascista, che ancora resisteva a Salò. Fu una liberazione dalla politica che considerava la guerra un fatto naturale (“la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”); dall’idea di una pretesa  superiorità razziale, presa a motivo di sterminio; dall’uso della violenza e dell’omicidio come strumento politico ammesso e approvato; dalla stupidità di un leader (allora si diceva duce) che volle una guerra (anzi più d’una) senza aver la capacità di prepararla adeguatamente né di portarla a termine; da una classe politica avida e fanatica, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di italiani, illudendoli con una retorica vuota e bolsa.    

Ma, forse, per capire meglio come siamo messi, potrebbe essere di qualche utilità ripercorrere non la storia di quel 25 aprile del ‘45, ma la storia della Festa in sé.

Il 22 aprile del 1946 Umberto II di Savoia (l’Italia non era ancora una Repubblica), su proposta del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, istituì la festa nazionale che ricorda l’Anniversario della Liberazione nella data simbolica del 25 aprile. 

Fa impressione che questa festa sia stata voluta da De Gasperi, che nel ‘22 aveva votato la fiducia al governo Mussolini, e sia stata ufficializzata da Umberto, figlio del re che a Mussolini aveva dato l’incarico di primo ministro. Nonostante questo retrogusto amaro, ciò vuol dire che i tempi erano cambiati, e che non ci si faceva più la guerra armata tra opposte fazioni. Di lì a poco, si sarebbe definitivamente voltato pagina con il referendum e la Costituzione. 

Gli unici a rifiutarsi di festeggiare la ricorrenza furono i neofascisti: negli anni Cinquanta il MSI portò avanti una campagna per abolirla, sulle pagine de Il Secolo d’Italia. Organizzarono una festa alternativa, per ricordare i caduti della Repubblica di Salò, con tanto di canti e saluti fascisti. In modo meno rumoroso, ancor oggi un gruppo di nostalgici ricorda i morti della Repubblica di Salò, che considerano veri patrioti e veri eroi, in opposizione ai partigiani, che considerano antitaliani e criminali. 

Beh… i morti sono tutti ugualmente degni di pianto, ma da vivi facevano la differenza: gli uni difendevano una tirannia violenta e guerrafondaia, gli altri cercavano libertà da quella tirannia.

In ogni caso, i missini lasciavano le aule parlamentari al momento della celebrazione della Liberazione. 

Berlusconi, da primo ministro, disertò i festeggiamenti del 25 aprile, affermando che «non veniva considerata la festa della Liberazione ma la festa di una parte contro l’altra». Un’affermazione stupida quanto sbagliata.

Anche Salvini ha evitato la ricorrenza come la peste, definendola un “derby tra fascisti e comunisti”. 

La Russa ha avuto un atteggiamento altrettanto ambiguo, al suo primo anno da presidente del Senato: fugace presenza all’Altare della Patria e volo a Praga, alla tomba di Jan Palach. Tanto per fare il gioco degli “opposti estremismi”, svilendo il senso della Liberazione, ancora una volta interpretata come di parte.

Quanto a Giorgia (non la chiamo così per sminuire il suo ruolo di prima ministra, ma perché lei stessa si presenta così, semplicemente, nei manifesti elettorali per le prossime elezioni europee), ha sostenuto in passato che “è una festa divisiva che non rappresenta tutti gli italiani”. Anzi, secondo lei, serve a ricordare “quando ci siamo ammazzati tra di noi”. Dovrebbe, invece, ricordarle quando abbiamo smesso di ammazzarci tra noi o, se vogliamo, quando i fascisti hanno smesso di ammazzare gli italiani. 

Quest’anno i toni sono apparentemente più istituzionali. La premier Meloni ha dichiarato che “la caduta del fascismo pose le basi” dell’attuale democrazia. Che non è ancora una dichiarazione di antifascismo, ma in parte corregge le bestialità che ho citato sopra. Resta, però, la domanda: era sincera prima, o è sincera ora? 

Anche quest’anno Salvini s’è sottratto ai festeggiamenti, ma per un buon motivo: doveva presentare il suo libro, mica è colpa sua se hanno messo la Festa nella stessa data. Persino qualche suo compagno di partito lo ha rimproverato. È già, sempre occhieggia l’idea che antifascismo vuol dire sinistra, avversario politico, non ripristino della libertà e dei diritti civili di tutti, Salvini compreso: neanche la Lega potrebbe esistere, se avessero vinto i fascisti.

Un altro motivo ricorrente nella storia della Festa è la contestazione della Brigata Ebraica, che quest’anno si è trasformata in vera e propria aggressione. Anche questo è un fatto incomprensibile. Gli ebrei, per un verso, furono le vittime designate del nazifascismo, per un altro costituirono un corpo di volontari, che ha combattuto per la nostra liberazione. Provenivano dalla Palestina, erano al sicuro dalla guerra, non avevano alcun obbligo, ma sono venuti qui a combattere. Qui il discorso dovrebbe chiudersi, non mescolarsi alle più o meno legittime contestazioni allo Stato di Israele. 

E, forse, è utile ricordare che all’epoca gli antisionisti arabi erano alleati della Germania nazista, cui chiesero aiuto contro gli ebrei e dove al bisogno si rifugiavano (cfr. Chi rema contro la pace in Medio Oriente? su Stampacritica del 30/11/23).

Fatto sta che, purtroppo, molti regimi del fronte antisraeliano del dopoguerra ricordano i regimi fascisti dell’Europa di prima: basti pensare a Giulio Reggeni, sequestrato e torturato a morte dal regime egiziano; alle donne iraniane e afgane, imprigionate e uccise per motivi futili quanto incomprensibili; a Jamal Khashoggi, sequestrato, ucciso e fatto letteralmente a pezzi per il solo motivo di essere un giornalista critico verso il regime saudita. Ma anche Hamas ricorda molto da vicino il fascismo, sia per la sua storia antidemocratica, sia per il suo antisemitismo esplicito, dichiarato fin nello statuto; ed ha presentato il suo biglietto da visita con le efferatezze del 7 ottobre. 

Questa storia, in conclusione, ci dice che la Festa della Liberazione è stata ed è caricata di significati che le sono estranei, e che tentano di alterarne il senso e di sminuirne il valore. 

Forse perché la liberazione non è ancora completa; e se, fortunatamente, la resistenza armata non è più necessaria, non è cessato il bisogno di una resistenza morale. 

Cesare Pirozzi