La religione della guerra
La guerra è una religione, una fede? Non parliamo delle guerre fatte in nome di un credo religioso contro un altro credo contrapposto o eresia del primo. È una vicenda antica che quei vessilli vengano usati per sacralizzare interessi e appetiti ben più profani, materiali, di potere. No, parliamo della guerra in sé. Quella di uno Stato che è, o si sente più forte di un altro, tanto da invaderlo, sottometterlo, per appropriarsi delle sue ricchezze e aumentare la propria potenza internazionale. In questo senso, sul suo piano interno e su quello coloniale, l’Europa è in sé l’enciclopedico atlante storico-geografico più ricco di capitoli al mondo.
Anche qui non si manca mai di scomodare il nome di Dio e la benedizione religiosa. Sono, però, più i valori spiritual-nazionalisti, di gloria e vanagloria eroico-patriottica a venir conculcati per giustificare il massacro sacrificale degli altri e anche proprio, se subìto per rovescio, o comandato per necessità strategica. Nella storia passata ogni guerra ha visto maree di ragazzi partire ebbri di sogni di gloria e al canto convinto di tali valori. Questi – vissuti con l’iniziale purezza giovanile di un’autentica spiritualità religiosa – hanno mostrato il loro orrendo volto reale nel fango, nel sangue, nella merda degli scannamenti, o dilaniamenti da cannoneggiamenti di terra e bombardamenti aerei.
Nella contemporaneità, però, è difficile accampare ancora tali valori. Non a caso, infatti, gli eserciti tendono a configurarsi in modo sempre più professionale, con reparti professionalmente specializzati, attrezzati, pagati. E – soprattutto – con il ricorso crescente e ormai stabilmente strutturato a quei battaglioni di veri e propri mercenari moderni che si chiamano Contractors, o PMSC, ossia Private Military and Security Companies. Questi soldati, infatti, combattono per nessun altro valore che non sia puramente il soldo, e nient’altro. As-soldati, non importa da chi e per quali luride o nobili operazioni belliche, tanto che a essi fa ricorso da tempo anche l’Onu per missioni di peacekeeping. E per conseguire lo scopo del loro agire puramente pecuniario, scevro da qualsiasi ideale o morale, non esitano a ricorrere alle azioni più nefande, atroci, vietate da tutti codici internazionali di guerra, compreso quello di spargere il loro sperma belluino anche in zone limitrofe per creare le condizioni di un allargamento che assicuri il prolungamento dei conflitti e delle conseguenti laute paghe di morte. Che è poi la vera ragione non dichiarata per cui vengono ingaggiati: permettersi tutto quello che i soldati degli eserciti regolari non potrebbero ufficialmente fare. Soprattutto mettere in gioco la propria pelle per commettere quelle efferatezze rivoltanti.
Eppure, proprio la condizione dei contractors, di estrema prosaicità, amoralità, assenza di motivazioni ideali e spirituali, dimostra meglio quanto la guerra poggi su un fondamento religioso, fideistico, sacrale. Per conseguire pienamente il volgar lucro, infatti, devono mantenere salda, incrollabile la convinzione dell’efficacia professionalmente super specializzata, pressoché scientifica, proprio perché altamente tecno-bellica, della loro azione ed equipaggiamento. Ossia: più la fede nella guerra si svuota delle sue surrettizie, fasulle motivazioni spirituali, ideali, morali, patriottiche, persino civili, più sale dal sottosuolo l’autentico credo, credenza religiosa che la sostiene e cui non può fare a meno in nessun modo. È questo il mito irrazionale della violenza come modificatrice, annullatrice o creatrice della struttura dell’essere, ossia della sua intangibile solidità sul piano ontologico, esistenziale. E tanto maggiore è la dimensione dell’essere da violentare, assoggettare alla propria volontà, tanto maggiore l’impiego di tecno-forza e insieme d’illusoria potenza religiosa. Ma la dimensione del fondamento è immane, infinita nei suoi legami d’insieme. Non c’è nessuna dimensione, compresa quella della stessa intera Terra, a essere isolata, isolabile dalla totalità universale.
La guerra non può così fare a meno di strutturarsi come un vero e proprio rito sacrale, sacrificale, da celebrare, rinnovare perpetuamente. Con i suoi santi e martiri, eroi, poeti e naviganti, ecclesiasti, sacerdoti e devoti. Nelle sue crocifissioni, confessioni, comunioni, processioni, fustigazioni, preghiere, canti liturgici di gloria e strazio. In spagnolo la stazione originaria di partenza e l’ultima di arrivo si dicono rispettivamente salida–destino. In questo senso la destinazione crono-ferroviaria finale della civiltà della guerra al capolinea della storia è già schedulata su tutti i tabelloni lungo le stazioni del calvario umano: destino il tramonto.
Riccardo Tavani