Le donne di Roma

“… il segnale convenuto per l’assalto era questo: Romolo si sarebbe alzato, avrebbe ripiegato il mantello, poi l ‘avrebbe di nuovo indossato. Molti armati di spada con gli occhi fissi su di lui, al segnale sguainano le spade e urlando si slanciano sulle figlie dei Sabini”. (Plutarco)

Iniziava così la storia di Roma. Cominciava con un rapimento. Il ratto delle Sabine. Romolo aveva fondato Roma, ma la città aveva bisogno di figli perciò occorrevano donne. Rapirle ad un altro popolo era la soluzione più rapida e anche la più semplice. I Sabini erano in guerra con Roma, le loro donne ebbero il merito di far cessare le ostilità. Nell’accordo di pace strapparono ai romani un trattamento di favore per le loro donne. Esse non dovevano lavorare per i loro mariti salvo filare la lana. Per la strada gli uomini dovevano cedere loro il passo, in loro presenza non si doveva parlare in modo sconveniente. Poteva considerarsi un primo tentativo di parità di genere. Un primo passo imposto ai romani, la cui società era prettamente maschilista. Una circostanza di non poco conto per il periodo storico in cui nascere donna a Roma voleva dire combattere per la vita.

Proprio così. Sono state trovate alcune iscrizioni di epoca traianea in cui si riporta che in città le persone ammesse all’assistenza alimentare sono 179 di cui 145 maschi e solo 34 femmine, questo già la dice lunga sull’essere donna e la sua faticosa condizione. I figli dovevano essere riconosciuti e si doveva farlo secondo un’antica tradizione, quella dell’esposizione. In pratica dopo il parto il neonato veniva deposto in terra, se il capo famiglia lo sollevava in aria compiendo una serie di gesti rituali, il bimbo veniva riconosciuto altrimenti veniva esposto in strada rischiando la vita. Inutile dire che i figli maschi erano quasi sempre riconosciuti, chi rischiava erano i deformi, gli illegittimi e le femmine.

I maschi venivano riconosciuti anche se la famiglia era povera, le femmine rischiavano, ma rischiavano anche se nate in famiglie ricche. Questa orribile usanza venne praticata fino al IV secolo d. C.  Dal 374 si puniva con la morte chiunque la praticasse.

L’educazione e gli studi della prole erano prerogativa dei soli figli maschi ed il compito di istruirli ed educarli era affidato ai padri. Le femmine erano relegate a mansioni domestiche ed erano affidate alle madri. La donna intellettuale non piaceva, anche se non sono mancati esempi di donne con capacità politiche di spessore. Una di queste fu Livia Drusilla, terza moglie di Augusto, che riuscì con molta abilità, tramando dietro le quinte a gestire il potere a Roma. Arrivò a far incoronare imperatore il proprio figlio Tiberio, frutto di un precedente matrimonio, e lo fece governando nell’ombra i poteri forti in mano ai senatori e alle famiglie ricche di Roma. Lo stesso fece Agrippina, moglie dell’imperatore Claudio, che fu capace di mettere a capo dell’impero suo figlio Nerone.

Per essere considerata bella una donna romana doveva possedere lineamenti perfetti, un bel viso ovale, essere magra, avere portamento sicuro ma mai superbo, naso dritto, occhi grandi e ben tagliati, bocca piccola e morbida.

Riguardo all’essere magre, le donne romane pur di rimanere in linea si sacrificavano seguendo ristrettissime diete. Un altro particolare che legava la donna all’origine della vita era il calendario. Quello Romuleo iniziava il 21 di marzo e terminava il 23 dicembre. Nove mesi, proprio il tempo della gestazione della donna. E i rimanenti mesi? Essi erano valutati come periodi non fertili e quindi non assumevano considerazione.

Completamente sottomessa all’autorità del paterfamilias, la vita della donna nell’antica Roma si svolgeva pressoché interamente in funzione della famiglia e del matrimonio. Molto giovane sposava un uomo che il padre aveva scelto per lei ed al quale l’aveva promessa sin da bambina. A seguito delle nozze (gli sponsalia), passava sotto il potere di un nuovo paterfamilias, che poteva essere il marito o addirittura il suocero, ovvero il padre dello sposo, fino a che era in vita. La sua dote (i beni e gli averi ricevuti dalla famiglia d’origine), entrava a far parte del patrimonio del marito e da questi amministrato. La donna veniva ritenuta incapace di provvedere giudiziosamente a se stessa e passava dall’autorità di un uomo a quella dell’altro, persino se rimaneva vedova le veniva nominato un tutore per la gestione dei suoi beni. Ed era l’uomo che decideva di lasciare la donna, di ripudiarla, soprattutto se non poteva avere figli. Nei rapporti matrimoniali entravano varie considerazioni: le alleanze fra famiglie potenti suggellate dalle nozze; la necessità di procreare per continuare la famiglia, (soprattutto se patrizia) e conservare il patrimonio; il dovere civico di far crescere la popolazione in uno stato in espansione come quello romano. E anche se vi è traccia nei racconti degli storici di coniugi legati da un sentimento autentico, si tratta di casi sporadici, in quanto spesso, amore, affetto e stima non ebbero importanza. Gli storici fanno notare come in sostanza, per la morale romana tradizionale, la donna, la propria donna, contava meno di un buon amico.

Quanto ai profili di libertà personale, contrariamente alla donna greca, la donna romana versava in una condizione più avvantaggiata, poteva uscire, assistere agli spettacoli ed alle cerimonie.  Il suo principale compito ed occupazione restava però l’allevamento e l’educazione dei figli.

Roma deve molto alle sue donne, esse hanno saputo forgiare intere generazioni, un merito poco riconosciuto e senza di loro Roma non sarebbe quello che oggi è.

di Antonella Virgilio

 

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