IL PUNTO IMPROPRIO, IL LUOGO DELL’ARTE
Una delle privazioni che ci ha imposto il momento storico che abbiamo tutti vissuto è stata quella di non poter visitare musei o gallerie d’arte. Per un lungo periodo non abbiamo neanche potuto perderci per le strade delle nostre meravigliose città, così piene di capolavori.
La possibilità di stabilire una relazione con un’opera è un’opportunità che cela un processo complesso.
La prima cosa che si fa quando si incontra un’opera d’arte, proprio come si fa quando si incontra una persona, è cercare di vederla. Non semplicemente guardarla, ma vederla. Cosa vuol dire? Vuol dire che è necessario mettere da parte la nostra naturale necessità di difesa, che ci spinge al distacco e spesso al pre-giudizio, per aprire le porte della nostra mente.
Il fatto che l’opera d’arte sia spesso, ma non sempre, un manufatto, cioè una cosa, non rende il compito più semplice. Perché non ci stiamo solo rapportando con il materiale di cui è fatta, o l’idea che gli storici ci raccontano, ci stiamo rapportando sempre con qualcuno di molto più impegnativo: noi stessi. Ancora di più quando si è davanti ad un’opera di arte contemporanea. Un’arte che lascia a volte un po’ interdetti, la cui potenza risiede proprio nel fatto che racconta delle pulsioni umane più profonde, quelle che ci rendono tanto simili, e lo fa con un linguaggio che in alcuni casi destabilizza, a volte fa cadere dalla sedia, oppure, nel migliore dei casi, repelle.
Studiare un’opera d’arte porta ad indagare come alcuni esseri umani abbiano raccontato la propria fragilità, la propria finitezza, la speranza dell’inizio, l’orrore della fine e il terrore dell’oblio. Insegna a riconoscere che tutti abbiamo, ma soprattutto siamo, delle infinite possibilità di esistenza. E a volte tutte queste possibilità si sovrappongono, si intrecciano, tirano e spingono apparentemente senza un senso, tanto da non far riconoscere più quella direzione che con tanta chiarezza ci si era prefigurata. Quasi come intrappolati, quasi fossimo la versione più contorta, sfocata e distorta della immagine che ognuno ha di se stesso.
La prima domanda davanti all’opera, qualunque essa sia, è: esiste una chiave per leggere quest’opera?
Ce la facciamo per due motivi, che stanno figurativamente uno sopra l’altro. Il primo è perché, se conosciamo più cose possibili di ciò che ci sta di fronte, abbiamo la sensazione di possederlo. Il secondo, direttamente conseguente, è perché questo esserne padroni ci impedisce di averne paura. E ci sentiamo meglio.
Ma davanti ad un’opera d’arte non ci si sente sempre bene. Il percorso di corrispondenze, come le chiamava Baudelaire, di profonde risonanze psicologiche e di richiami misteriosi che si instaura, non è, a volte, né immediato, né soddisfacente.
Di fronte ad un’opera d’arte le domande che più spesso affiorano sulla bocca di chi guarda sono: che cos’è? cosa vuol dire? La situazione si complica se si è di fronte, per esempio, ad un’opera d’arte astratta, o se l’artista non aiuta il pubblico neanche con il titolo, indicando un fin troppo generico Senza titolo. Si attua un piccolo cortocircuito: anche se si conosce la poetica dell’artista, il periodo e il contesto storico artistico in cui l’opera è stata concepita, manca una chiave di lettura univoca. L’opera d’arte sfugge al possesso, non ha addirittura neanche un nome e non riesce ad essere inserita del tutto nella nostra personalissima tassonomica.
Allora è necessario cambiare domanda. Non più solo che cos’è? e cosa vuol dire?, ma chi è in relazione a me? Il punto è immaginare quale rispondenza possa esistere con un oggetto d’arte, soprattutto quando è completamente indipendente dalle referenze visuali comuni. L’assunto di base da cui credo non si possa mai prescindere è che l’opera d’arte esiste per l’occhio di chi la guarda, cercando di vederla. Non importa la sua genesi o la sua destinazione: è sempre l’incipit di un dialogo. E se la competenza storica e tecnica aiuta a comprenderne la superficie, e magari a brillare in una conversazione da salotto, essere aperti a stabilire una relazione con l’opera permette che questa diventi uno specchio. Non uno di quelli che dà risposte, che rende il campo visivo più nitido, ma uno specchio che incoraggia a riconoscere la propria unicità, a liberarsi delle proprie paure e a percorrere un imprescindibile viaggio: quello dentro di sé.
Può quindi accadere che ci si trovi, nostro malgrado, ad interpretare il ruolo del punto improprio delle rette parallele, magistralmente descritto nel capolavoro di Giuseppe Tornatore “Una pura formalità”: Due rette parallele non si incontrano mai. Tuttavia, è possibile immaginare l’esistenza di un punto così lontano nello spazio, ma così lontano nell’infinito, da poter credere e ammettere che le due rette vi si incontrino. Ecco, chiameremo quel punto, punto improprio.
Ed è esattamente lì che si trova l’arte.
di Francesca M. Novello