“FACITE AMMUINA”
In politica, è quasi una parola d’ordine: facite ammuina. Quando si vuole nascondere qualcosa, si alza un polverone di parole, pescando nello “stupidario” sempre ben fornito della politica.
Lo abbiamo visto, per esempio, a proposito del testamento biologico. Si è parlato di eutanasia e di rispetto della vita, quando invece si trattava soltanto e semplicemente di consenso alle cure: una cosa normale, un diritto (costituzionale) che tutti i giorni si esercita in qualunque ospedale e ambulatorio. Vi immaginate che cosa succederebbe se non potessimo esercitarlo? se venisse abolito il “consenso informato”? Eppure, che fatica ottenere che potesse avvalersi di questo semplice diritto anche chi non sia più in grado di parlare!
Lo stesso fenomeno dell’ammuina si sta verificando a proposito dello ius soli. Qualche esempio?
“La cittadinanza va meritata, va voluta, va scelta al compimento del 18esimo compleanno” (Salvini, 24 dicembre). Ma io, che cosa ho fatto per meritarmela? Ho dovuto aspettare la maggiore età? No: l’ho ricevuta nascendo, senza alcun merito. Come tutti i cittadini italiani, compreso Salvini.
“Gentiloni premia i terroristi: cittadinanza a tutti” (Libero, 20 agosto). Ma non erano cittadini italiani i terroristi degli “anni di piombo”? E che gliene frega ad un terrorista islamico di avere o no la cittadinanza? E sono terroristi i bambini nati in Italia dagli immigrati?
“Ius soli?… Oggi la nostra priorità è il sostegno al reddito degli italiani” (Di Maio, 27 dicembre). E che c’entra con lo ius soli? Come può, questo, interferire con il sostegno al reddito? O forse teme che discutere la legge sullo lo ius soli abbassi il reddito degli italiani?
E via cazzeggiando…
Invece il fatto è molto semplice: ci sono dei bambini nati in Italia, che vanno a scuola in Italia, come altri bambini nati in Italia, che vanno a scuola in Italia. Qual’è la differenza? Il sangue? Il colore della pelle? Il corredo genetico? Sono circa 800.000: vanno a scuola con i nostri figli e parlano con la loro stessa inflessione dialettale. Parlano allo stesso modo e giocano allo stesso modo: loro sono già “fratelli di fatto”. Si tratta di dire sì o no a riconoscergli lo stesso stato giuridico, anche se i genitori sono nati in un altro posto, ma vivono qui e pagano le tasse qui. Chi non vuole dica di no, ma – per favore – non facite ammuina.
E dopo, magari, la priorità sarà preoccuparci del pianeta in cui viviamo, affratellati tutti dallo stesso effetto serra, non delle solite beghe di cortile.
Forse ha ragione Sebastian Kurz, che vuol dare la cittadinanza austriaca ai cittadini italiani della provincia autonoma di Bolzano, che non risiedono in Austria, pagano le tasse in Italia, votano in Italia ed hanno ricevuto parecchi soldi e qualche privilegio dallo stato italiano. Non è un buon esempio di come lo “ius sanguinis” (o dovremmo dire: diritto di razza?) possa essere abusato a piacimento?
Mi sembra evidente che l’opposizione a questo “ius soli moderato” nasconde una piccola vena di razzismo ed una visione miope. Forse è utile ricordare che dare o negare la cittadinanza hanno dei precedenti storici interessanti. Uno lo ricordavo nel numero precedente di Stampa Critica: la costituzione della Repubblica Romana del 1849. Il problema “cittadinanza” era risolto all’articolo 1: “Sono cittadini della Repubblica gli stranieri col domicilio di dieci anni”. Senza altre condizioni. Ma perché? Perché essere cittadini è la condizione preliminare per essere donne ed uomini (e bambini!) liberi; e perché essere cittadini comporta doveri, oltre che diritti; per esempio il dovere di ottemperare alle leggi e di difendere il Paese in cui si vive. Tanto è vero che quella stessa costituzione prevedeva la perdita della cittadinanza per diversi motivi, come “l’abbandono della patria in caso di guerra, o quando è dichiarata in pericolo”, “il servizio militare presso lo straniero” (come dire: andare a combattere per l’ISIS) e, addirittura, “per condanna giudiziale”. Proprio così: la cittadinanza bisogna meritarsela, anche con l’onestà.
Ma, sempre ricordando i precedenti storici, non avevano diritto di cittadinanza gli ebrei nella Germania nazista, né gli ebrei all’epoca dei ghetti dello Stato Pontificio, anche se nati a Roma e discendenti da “cives romani” che vi risiedevano fin dall’epoca di Cesare. La negazione della cittadinanza è sempre una cosa pericolosa: nasconde la volontà di discriminare, la possibilità del sopruso, fino alla negazione della dignità umana e alla perdita della libertà. Per questo gli schiavi di tutte le epoche (dai campi di cotone americani del passato ai campi di pomodoro italiani di oggi) non hanno diritto di cittadinanza.
Al contrario, riconoscere la cittadinanza a chi vive nella stessa terra, vuol dire, semplicemente, riconoscergli pari dignità e pari doveri. Si può, beninteso, discutere su come ottenerla, ma non sul principio, che è, banalmente, un principio di civiltà. Essere cittadini di uno stato non è un privilegio, né un dono: è solo l’elementare premessa alla convivenza civile.
Un altro aspetto interessante della questione è il suo iter parlamentare. Il disegno di legge era stato approvato dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma il Senato non ha trovato il tempo di discuterlo (tanto per dar ragione a chi, il Senato, voleva abolirlo) fino al 22 dicembre scorso, quando, guarda caso, è mancato il numero legale per il voto sulla pregiudiziale di costituzionalità. Costituzionalità? ma come potrebbe lo ius soli essere incostituzionale se la Costituzione non fa menzione di come si diventa cittadini italiani? Vista la difficoltà a sostenere un vulnus costituzionale, meglio squagliarsela. Il messaggio, tradotto dal linguaggio dell’ammuina politica al linguaggio normale, è il seguente: questa legge non s’ha da fare, né ora né mai. Ma senza dirlo, senza metterci la faccia. Meglio defilarsi, ci sono le elezioni; sono ben altre le priorità.
di Cesare Pirozzi