Dal Circeo a Macerata. La morte delle donne per i fascisti non cambia. Si usa

“Già ci immaginiamo le condanne dell’Anpi, degli antifascisti vari e di chi serve la causa della sostituzione etnica. Già sentiamo lo sdegno dei palazzi e dei salotti Tv. Noi invece abbiamo nelle orecchie il pianto straziato della famiglia di Pamela e il grido di rabbia di un’Italia che vuole reagire e non morire d’immigrazione”.

Così chiude la nota di Forza Nuova Roma a proposito dei fatti di Macerata. Chiude così, e mentre leggo le ultime parole il pensiero va proprio a Pamela. A Pamela e a tutte le ragazze, le donne massacrate, stuprate, umiliate da questa eterna campagna elettorale e di distorta cultura sulla loro pelle.

 Va a come sono “usate”, da sempre, oltre l’evidenza dei terribili fatti di mostruosità che le vedono protagoniste. Contorni in cui si perdono di vista, alla fine, la loro vita e, soprattutto, la loro morte.
Chi uccisa per “troppo amore”, chi da “immigrato da espellere”, per arrivare anche a chi, se parliamo anche di umilianti drammatiche distorsioni collettive, si vede all’apice di una carriera politica sbattuta su media con la testa sgozzata e sanguinante alla berlina di mostri che questa immagine creano e diffondono.
Così stamani, per quei doni di collegamento emozionale e temporale che fa la Memoria (strumento, per questo, fra i più preziosi da coltivare) l’immagine che non mi tolgo dalla mente è quella del volto di una ragazza terrorizzata che esce sanguinante da un baule di una macchina.

Una foto in bianco e nero, una di quelle che, anche se eri piccola, molto piccola, ti si fermano nella mente e che ti restano dentro, da tanto ti sembrano incredibili. Quella ragazza era Donatella Colasanti e in quel baule con lei c’era la sua amica Rosaria Lopez, uccisa poco prima.

Era il 1975, non esistevano cellulari, né social media che potessero diffodere quanto accaduto in un attimo. Abbiamo quella terribile foto solo grazie allo strano intuito di un reporter accorso con i Carabinieri sul posto dove, da una macchina, qualcuno aveva sentito provenire un lamento come di un gatto lì rinchiuso.

Era Donatella, invece. Donatella che, fintasi morta, cercava qualcuno che la liberasse mentre gli assassini della sua amica e i suoi aguzzini per giorni, se ne erano andati tranquillamente a cena dopo aver parcheggiato la macchina nel cui bagagliaio le avevano chiuse.

“Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio all’improvviso” raccontò poi Donatella nel processo.

“Devono averla uccisa in quel momento. Mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che mi tiene al petto con un piede e sento che dice: Questa non vuole proprio morire.

E giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto. Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno che diceva: Guarda come dormono bene queste due“.

Insomma, i fatti orrendi del Circeo, e soprattutto gli strani sviluppi a posteriori sul perseguimento dei suoi tre colpevoli, possiamo andare ad approfondirli e conoscerli meglio se anche non si fossero vissuti. Quello che rimane, però, oggi è la sensazione di qualcosa di mostruoso che ritorna e usa questa violenza senza fine, ancora, e sulla pelle e sul dolore di chi è morta.

La nausea del vedere che proprio un mondo simbolo di violenza, prevaricazione, dell’irrisione del più debole, nonché della misoginia più o meno ora astutamente mascherata, si erga oggi a paladino di qualcosa che, invece, “puro” o da difendere non, usando nuovamente una ragazza, e la sua terribile morte.

Donatella e Rosaria, che con rinnovato dolore tornano in mente stamani, erano nell’immaginario dei propri aguzzini di estrema destra “due accattone, due put***elle”, due ragazze semplici, di classe inferiore e non riesco stamani a non farmi la fantasia che esattamente la stessa cosa penserebbero della povera Pamela, quelli che oggi difendono strenuamente “il pianto della famiglia di Pamela” tramite il vendicatore fascista della sua morte per le strade di Macerata.

Insomma… la certezza che per questo mondo che ora urla e grida vendetta se l’assassino di Pamela non fosse un immigrato, l’idea sarebbe, nuovamente, dell’ennesima ragazza che se l’è cercata quella morte… come minimo.

Allora torna a bomba la Memoria. Torna la nausea del sentire usata questa morte, di una offesa ulteriore alla sua triste fine e la necessità forte di lottare contro lo sdoganamento folle di chi vuole ergersi “a difesa” di Pamela provenendo da quel mondo di orrore. Dal fascismo, sì. Chiamiamolo con il suo nome.

Così accade che, in questa sensazione rivoltante, Rosaria ammazzata e rinchiusa in quella macchina, Donatella insanguinata che ne esce con gli occhi sbarrati, appaiono come sorelle, unite nella Memoria alla povera Pamela, chiusa in un trolley e fatta a pezzi.

Una ragazza, la sua terribile morte, in primo piano. E tutti noi qui, sgomenti, davanti a quello che accade. Spettatori del teatro indegno di assurdi opportunisti paladini di non si sa che cosa, tranne che di pura violenza. Sfruttatori, come sempre, di dolore e ignoranza nei tempi oscuri e confusi della nostra storia. Non permettiamoglielo.

di Milene Mucci

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