Cine-pillole delle fresche sala a metà luglio
Per Lucio. Non un semplice biopic musicale, ma un film d’autore. Pietro Marcello ripercorre la storia d’Italia, fino agli anni ’80, attraverso la vicenda e le canzoni del piccolo grande bolognese. È certamente il Lucio Dalla che ha più contribuito alla formazione, alla particolarissima sensibilità artistica, cinematografica del regista casertano. Pietro Marcello, infatti, nasce nel 1976, mentre il celebre cantante – come fin troppo noto – appare in Bologna in quel mitico 4 marzo ‘43 che lui ha messo anche in musica e parole. Il regista scaturisce da quella storia che Dalla descrive in note e versi, prima insieme al poeta Roberto Roversi, poi da solo. Storia d’immigrazione interna, dal Sud alle industrie del Nord, di treni stracarichi, di spaesamenti e tensioni sociali. L’apice è il 2 agosto 1980, con la strage alla stazione della sua Bologna. Non tutto Lucio, non tutta la sua Italia, dunque. Magari un seguito, chissà.
Black Widow. Action movie a sfondo femminile. Due sorelle, figlie “di copertura” di una coppia di spie, si rincontrano, dopo la loro crudele separazione avvenuta nell’infanzia, prima micidialmente avversarie, poi alleate contro il più devastante dei complotti planetari: il devastante, definitivo controllo su ogni tipo di mente vivente. Scarlett Johansson, la protagonista nei panni dell’eroina Avangers, è anche la produttrice esecutiva del film. A impronta femminile, perché il controllo mentale è soprattutto su una efferata schiera di vedove nere, sottomesse al disegno di uno stratosferico criminale che le inchioda al suo potere. Metafora d’attualità abbastanza esplicita. Non andate via ai titoli di coda, perché alla fine c’è un’altra scena, che è già l’inizio del seguito.
Le sorelle di Marija. Grande lezione di forma cinematografica al servizio di diritti civili e sociali. Crhistina Meeusen, all’età di cinquant’anni, si trova completamente derubata dal marito dei soldi guadagnati in tanti anni quale dirigente d’azienda di successo. Si rifugia i California, a casa del fratello, e insieme a lui comincia a coltivare marijuana a scopo curativo. Anche questi, però, finisce per cacciarla di casa e sbatterla per strada. Fonda una comunità di sorelle, totalmente laica e areligiosa, sull’esempio delle infermiere Beghine, per dedicarsi marija, anche sulla scorte della legge di liberalizzazione approvata in quello Stato. Inizia la sua lotta contro lo sceriffo, i suoi poliziotti che la braccano, il vescovo, e altre autorità di Merced, per affermare il suo diritto alla coltivazione e alla cura di malati. Non basta documentarla una storia vera, così come farebbe un servizio televisivo. Per scendere a fondo nei contenuti, bisogna conoscere il cinema, avere capacità di sguardo, possedere sensibilità e stile registico, qualità nelle inquadrature, nei movimenti della macchina da presa, ritmo di montaggio. Una storia e una lezione davvero luminose.
Baci rubati. Omosessualità e fascismo, ma troviamo un nome diverso per questo genere di film. Non solo il titolo, ma anche le immagini sono rubate. Il titolo prelevato di peso dal noto film di François Truffaut del 1968. Le immagini da vari archivi storici, in primo luogo quello dell’Istituto Luce che lo distribuisce. Di farina del loro sacco i due autori si limitano ad aggiungere appena qualche intervista a camera fissa a degli studiosi, e la lettura di testi medici dell’epoca da parte di un attore che indossa un camice bianco. Il documentario di montaggio, ormai, si sta affermando come genere. A firmarlo sono sempre più autori che spesso non hanno alcuna pratica attiva di cinema: giornalisti, scrittori, ricercatori vari. Si sceglie un tema, ci si fa finanziarie da una rete tv o da altro produttore le non gratuite ricerche d’archivio, condotte, infatti, da personale altamente specializzato dell’Istituto, e poi il montaggio, anche questo ormai sempre più vertiginosamente digitalizzato. Indubbiamente le immagini scelte hanno una loro alta qualità, perché dietro c’è una scuola e una sapienza cinematografica, sia negli operatori di macchina, sia nei registi dell’epoca, cui inquadrature e sequenze sono ora anonimamente rubate. Certo, è anche bello ridare vita a queste vecchie, preziose immagini, ma innanzitutto andrebbero accreditate ai loro autori. C’è il rischio, inoltre, è proprio di perdere la capacità di fare quel grande cinema originario, che proprio attraverso il documentario, ha dato un qualche prestigio alla scuola italiana nel mondo. Con questo non si vogliono disprezzare i temi e i racconti in sé alla base di tale nuovo genere. Come in questo caso, nel quale si mostra la particolarità con la quale il fascismo ha sia represso, sia occultato, sia anche tollerato l’omosessualità maschile e femminile, soprattutto se praticata in Italia dalle classi alte della società nazionale e internazionale.
Days of Being Wild. Nascita dello stile hong-konghese. Un bel ragazzo cui l’altro sesso non resiste a innamorarsi, è stato allevato da una donna che non è la sua vera madre, e che non gli svela chi e dove sia quella vera. Un’umile ragazza e una cantante di locale notturno s’innamorano perdutamente di lui. Il quale, però, è incapace di amare a sua volta. Sarà l’assenza della vera madre della quale va alla ricerca? E forse questa mancanza sentono di dover riempire le donne che lo inseguono? Meritoriamente la Tucker Film, casa di distribuzione, e alcune sale, a Roma Circuito Cinema, stanno riproponendo i film del regista Wong Kar-wai, cinese di Shanghai, ma formatosi come cineasta a Hong Kong. Questo film, del 1990, segna la messa a punto dei primi stilemi cinematografici e narrativi di tutta la sua opera successiva. Al caos wild, selvaggio del protagonista, si affianca quello dell’ordine, di un giovane in divisa da poliziotto, così come vediamo anche nel successivo Hong Kong Express, 1995, in questa rubrica già cine-pillolato. La prevalenza delle inquadrature a personaggi in primo piano, con poco sfondo intorno, sortisce l’effetto di uno strano rovesciamento: l’immagine che rimanda al fascino di un’atmosfera letteraria, sedimentata più nel nostro inconscio che sulla superficie visibile del film.
The book of vision. La continuazione di Malik con altri mezzi. Eva, una dottoressa altamente specializzata in oncologia, molla ogni sua attività per dedicarsi totalmente alla storia della medicina, con particolare riferimento al ‘600. All’interno di una biblioteca-museo prende conoscenza di libro del titolo, un vero e proprio incunabolo, dal quale emerge una diversa concezione della cura: l’uomo non oggetto di studio e intervento medico, ma soggetto che può spontaneamente svelare al terapeuta le radici più profonde dei suoi mali, ma anche della sua salvezza. Il passato, i volti, le storie di quel libro, sono gli stessi, sotto diverse apparenze e circostanze del presente di Eva. La morte è così solo uno sguardo malato, aberrato. Una truka, con immagine del mondo perfettamente capovolto, sta a indicarlo esplicitamente. Film da guardare e capire allora con una rinuncia al nostro insalubre modo di guardare la realtà. Anzi, il cinema diventa direttamente lo sguardo diverso. Non a caso Terence Malik è qui produttore esecutivo del suo poliedrico allievo italo-svizzero Carlo S. Hintermann.
Madre. Un giallo di grande cinema a più significati stratificati. Una madre tenta di scagionare contro tutto e tutti il proprio figlio con handicap mentale dall’assassinio di una ragazza. Bong-joo-ho, il regista Oscar di Parasite, mette a punto stile e temi ricorrenti del suo cinema in questo film del 2009, ora in diverse sale estive italiane. La stolidezza bruta e l’incapacità investigativa della polizia sudcoreana corrispondono al vizio nazionale di non sapersi guardare dentro, cercando solo di dimenticare e sviare la realtà.
di Riccardo Tavani