Educazione e psicobiologia: transiti

Può un burattino di legno diventare uomo oppure è possibile che una giovane colpita da una sindrome misteriosa, assimilabile allo stato di morte, riprenda vita?

Secondo i racconti di Collodi e Perrault tutto ciò è può accadere a condizione che si verifichi un incontro di particolare pregnanza.

Al contrario, Peter Pan rimane quello che è, in quanto rifugge incontri che potrebbero tradursi in occasioni di cambiamento.

Fromm afferma che ogni incontro, anche casuale, non ci lascia immutati, provoca un cambiamento.

Quale arcano si cela dietro a queste dinamiche?

Probabilmente, la considerazione che nascere non basta perché la nascita è di per se stessa un mutare psicofisico, dettato dalla instancabile ricerca di omeostasi della mente.

Attraverso processi intrapsichici di adattamento e di assimilazione, adottando la terminologia di Piaget, la mente decodifica il mondo che la circonda e si pone come sistema dentro ad un sistema.

Gli studi poi di Anna Freud ci ricordano che nell’interscambio con la madre, secondo la dinamica seno-buono seno-cattivo il neonato interagisce con il mondo. Questo è certamente il primo incontro significativo con un altro da sé. Nel contempo,però, è anche un paradosso in quanto questo bambino prima faceva parte di quell’altro.

E’ interessante notare come per diventare un individuo, l’uomo deve prima transitare attraverso un’altra persona. Un transito da non ridurre al solo meccanismo del parto, ma da estendere per un tempo molto più lungo e che comprende diverse accezioni, passando dall’allevamento all’accudimento.

Bolwby e Winnicot sono molto precisi a tale proposito e ammoniscono sulle qualità che deve possedere questo lungo esodo.

Se un antico detto afferma che il nascere ed il morire sono momenti di estrema solitudine per l’uomo, possiamo aggiungere come corollario che il vivere è invece un momento di comunione, al di là degli esiti della stessa, in quanto quella chimica che ha originato lo sviluppo del feto, ora per entrare nella costruzione della mente deve confrontarsi con le alchimie del mondo e dell’alterità.

La grandezza ed il limite della persona umana si gioca in questa costruzione e in questa dialettica, dalla quale non ci si può eludere nemmeno se ci si è costretti ad affermare con Sartre che “l’enfer sont les autres” o con San Agostino :“vita comunis maxima mea poenitentia”.

In effetti, quando il feto evolve in neonato, le dinamiche intrapsichiche si arricchiscono attraverso i processi cognitivi, emotivi ed affettivi che diventeranno propri e caratteristici di quella mente. Si tratta di un progressivo coniugarsi di elementi biologici e psichici che vanno a costruire l’unicità della persona.

Ma questo non è sufficiente in quanto il cucciolo d’uomo è il meno attrezzato a vivere da solo: già per nutrirsi ha bisogno per lungo tempo di un altro. Sarebbe sciocco, a mio parere, pensare che questa lunga dipendenza sia puramente casuale; invece, proprio perché l’individuo è un sistema complesso, il suo sviluppo non è semplice e necessita di una relazione stabile, soprattutto nei primi anni di vita, sulla spinta di tendenze biologiche innate.

Sappiamo bene, inoltre, che crescere quel bambino non è un atto puramente biologico e meccanico, ma è anche, se non soprattutto, l’instaurarsi di una relazione.

E’ proprio qui che possiamo individuare quell’incontro che permette di diventare persona, in specie di diventare quella persona e non un’altra.

Le prime relazioni familiari sono, infatti, prototipiche delle relazioni future, come illustrato dalla teoria dell’attaccamento[1], e dello sviluppo del “sentimento sociale” [2], quale istanza innata nell’uomo che determina un bisogno di cooperazione e di compartecipazione emotiva con i suoi simili.

Il modello di attaccamento s’incarna nella personalità del soggetto e diventa modello di riferimento relazionale, dal quale deriveranno molteplici se non opposti comportamenti in età adulta, fusi in uno “stile” di rapporto interpersonale, a guisa di chiave, che distingue sia il suo approccio con gli altri sia la capacità stessa di costruire, quantitativamente e qualitativamente, le relazioni.

In tal senso, lo spessore di prossimità che il bambino avverte nel rapporto con la madre[3], funge da “imprinting”, cioè da apprendimento al vivere tramite la prima esperienza del vivere.

Sul piano clinico, basti pensare a quanto descritto da Spitz con il termine “depressione anaclitica”, che va a descrivere quella sindrome che si manifesta in bambini molto piccoli separati dalla madre per lunghi periodi di tempo. La mancanza di una relazione significativa, di un accudimento pregnante ben più significativo del solo allattamento, può provocare gravi patologie e/o la morte.

Anche Pinocchio è sul punto di morire e la Bella addormentata nel bosco giace in uno stato vegetativo.

Il passaggio nella pancia del pesce e l’incontro con Geppetto, provocherà quel processo per cui il burattino muterà in bambino.

La Bella addormentata nel bosco dopo il bacio del Principe azzurro, tornerà in vita.

Due situazioni, due incontri, due (ri)nascite. In definitiva, cambiamenti che permettono di transitare da uno stato all’altro, in linea migliorativa, a favore dell’omeostasi, protagonista la relazione; similmente a ciò che accade nel nostro organismo mediante l’apoptosi[4], cioè quel processo fisiologico di morte cellulare programmata, che permette il mantenimento del numero di cellule necessarie all’omeostasi del sistema, per il suo ciclo vitale.

Si direbbe che la dimensione intrinseca all’uomo e quella esterna rispondano a stessi bisogni, dove chimica della mente e alchimie relazionali concorrono alla formazione della persona.

Non solo: i meccanismi cognitivi trovano nei neuroni specchio[5] una classe di neuroni che si attivano selettivamente nei confronti di un’azione compiuta o osservata, offrendoci nuove chiavi di comprensione delle azioni e dell’apprendimento per esperienza e per imitazione.

La biologia pare dirci che l’alterità costituisce una costante per la crescita dell’uomo e la mente evolve contestualmente all’apprendimento sociale, sulla base di una struttura nervosa ereditata che, con la sua chimica, sostiene le attività cerebrali, quelle cognitive, il comportamento e le emozioni.

L’individualità conserva, perciò, una sua originalità e complessità che esprime nella relazione in quanto persona.

In tale contesto si giustifica l’educazione come processo relazionale che induce e accompagna il cambiamento, secondo il ciclo vitale dell’uomo.

La relazione prototipica originaria, poi generativa, madre-figlio, inaugura quel processo che nutre e fa crescere quale corollario del “tirare fuori”, proprio secondo l’etimologia del verbo educere, affinché il bambino impari a conoscere e conoscersi, grazie all’apparato neurofisiologico e agli stimoli ambientali.

Dalla nascita in avanti, una sequenza ininterrotta di cambiamenti, talora silenti e nascosti, modella l’assetto psicofisico dell’individuo, e si accompagna all’educazione, secondo altrettante sequenze, scandite anche’esse dal cambiamento.

Nella misura in cui queste due sequenze sono sincrone, contribuiscono all’omeostasi; se una delle due è carente o assente insorgono patologie o l’educazione si riduce ad allevamento.

La storia di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron[6], è esemplare a tale proposito, laddove il lavoro educativo del Dr. Itard raggiunge risultati insperati, smentendo la rozza diagnosi di Pinel.

Se, infatti, le alchimie relazionali provocano dei cambiamenti, se non altro a livello di stati emotivi, a prescindere dalla consapevolezza del soggetto, la relazione per eccellenza è quella educativa, con il suo dischiudersi finalistico e intenzionale.

In questa ottica, l’educazione diventa, quindi, relazione capace di nutrire, cioè di prima necessità e utilità per la persona, la cui mente è predisposta a recepirla, in quanto apporta significato alla risposta meccanica dell’apparato psicobiologico, distinguendo così l’uomo dalle altre specie animali.

Relazione storicamente e culturalmente mutevole, poiché legata alla persona e al suo modo di rappresentarsi nel tempo, e avente per scopo un cambiamento modale.

Educazione come rappresentazione delle modificazioni modali che coinvolgono singoli individui; legittimabile, in quanto rappresentazione storicamente, linguisticamente e geograficamente relativa a quanto nelle culture umane sta ad indicare un processo di mutamento. Mutamento che è una sostanza materialmente visibile, emotivamente percepibile e quantitativamente misurabile.

Educazione deputata a seguire pari passo e ad imprimere significato allo sviluppo della mente.

Il cambiamento, assunto dunque ad esempio, modello, paradigma fondamentale dell’evento educativo diventa l’unità fenomenica percepibile, narrabile, osservabile nell’immediato, verificabile in ordine a competenze e capacità, condotte, idee prima non possedute o differenti da quelle attese[7], ricerca di senso e significato.

Qui si consuma la grande alchimia che accompagna l’uomo per tutto l’arco della sua esistenza: cambiamento come necessità; relazione come strumento; omeostasi esistenziale come fine.

Parafrasando Watzlawick[8], possiamo affermare che come è impossibile non comunicare perché ogni forma di comportamento è comunicazione, così è impossibile non educare perché ogni forma di relazione è educazione in quanto provoca un seppur minimo cambiamento, in proporzione alla pregnanza ed agli attori dell’incontro.

Va da sé che ogni relazione assume caratteristiche e valori differenti, quindi, diventa regista di altrettante diverse alchimie.

Qui troviamo la discriminante degli stili educativi e i conseguenti esiti comportamentali; non a caso Pinocchio incontrando Lucignolo regredisce in una condizione “asinina” e Peter Pan rifiutando l’incontro con l’adultità, cioè con una relazione maturativa, rimane un eterno bambino.

Si possono, poi, verificare incontri inaspettati e/o inusuali; non è difficile, infatti, che alcune relazioni lascino perplessi, stupefatti o perfino traumatizzati. L’innamoramento, per esempio, possiede una forza affettiva ed erotica capace di squassare l’amato e/o l’amante, ed esige che la coppia si impegni nell’educarsi a questa nuova dimensione.

Purtroppo, è quindi naturale incappare talvolta in relazioni che nutrono, ma intossicano nel contempo, causando danni più o meno gravi e/o irreversibili; esse si traducono in stili educativi che adescano la vulnerabilità della persona e ne rinforzano il grado di immaturità, crescendola secondo quello che il linguaggio comune definisce maleducazione. Comunque, educazione.

Menti offese o menti sviluppate, sono anche il frutto di alchimie educative deficitarie e nocive oppure ricche di elementi vitali, con esiti differenti appunto a livello di maturazione della persona, in vista del fine ultimo del benessere nella sua accezione più completa

Come il cibo va tarato e dosato secondo una dieta appropriata all’organismo che lo deve ricevere, così le alchimie si devono confrontare e monitorare con il profilo psicobiologico dell’educando.

In questa prospettiva, l’educazione permette, inoltre, all’uomo progressivamente di cercare e selezionare il nutrimento per la propria crescita attraverso la conoscenza di se stesso e l’esperienza del mondo (buona e/o cattiva); in tal senso essa può suscitare nell’individuo fattori di resilienza che, come certo cibo, sviluppano il suo sistema immunitario, in questo caso psicologico.

L’alchimia, infatti, è arte di trasformazione ed il buon alchimista è colui che sa riconoscere e combinare i più disparati elementi naturali.

L’educazione, in ultima istanza, fa sì che la persona diventi un alchimista della propria esistenza, capace di fare tesoro di ogni esperienza e di metabolizzarla affinché non rimanga, nel bene e nel male, quello che è o che è stata ma si trasformi in nuovo elemento utile alla crescita della mente.

Nel 1943, dal campo di Westerbork, Etty Hillesum, ebrea olandese, scriveva: « A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione , allora non siamo una generazione vitale»[9].

La salvezza dell’uomo consta nella capacità plastica del suo metabolismo psichico in modo di essere “capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte”[10].

Prof. Nicolò Pisanu


[1] Cfr. la teoria di J. Bowlby, in specie il saggio: “Attaccamento e perdita – L’attaccamento alla madre”, Vol.1, Bollati Boringhieri, 2000.

[2] Concetto coniato da Alfred Adler,

[3] Va detto comunque che non necessariamente si debba trattare della madre biologica ( in termine tecnico si parla di un “caregiver” ).

[4] Si vedano gli studi di John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e A. R. Currie.

[5] Cfr. Rizzolati G., Sinigaglia C., “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”, R. Cortina Ed., 2006; Iacoboni M., “I neuroni specchio”, Bollati Boringhieri, 2008.

[6] Itard J., “Memoria sui primi progressi di Victor dell’ Aveyron ” , 1801; “ Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’ Aveyron ”, 1807.

[7] Demetrio D., Educatori di professione, La Nuova Italia, Firenze, 1993.

[8] P.Watzlawick-J.H.Beavin-D.D.Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1971.

[9] E. Hillesum, Lettere (1942-1944), Adelphi, Milano, 1990.

[10] Carta di. Ottawa, 1986.

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