Il campo di internamento “Le Fraschette” di Alatri: una ovazione per non dimenticare.
I campi di prigionia, di concentramento e di internamento erano stati usati fin dalla Prima Guerra Mondiale (in realtà anche nei periodi bellici dell’800 venivano utilizzati in Europa una sorta di campi di raccolta prigionieri). Durante il periodo fascista dal 1930 al 1935 si crearono dapprima i campi di prigionia africani, all’interno dei quali le condizioni di vita erano durissime, in Libia prima ed in Somalia poi, destinati a raccogliere sia i prigionieri di guerra etiopi, sia i rappresentanti governativi che si opponevano a Mussolini. Erano luoghi dove venivano ammassati i soldati catturati oppure gli individui ritenuti pericolosi, il confino era una delle modalità già sperimentate, ma durante il fascismo divenne una prassi consolidata quella di allontanare e detenere in modo coatto, le persone che la pensavano diversamente, gli avversari politici e quei letterati, filosofi, poeti che davano fastidio al regime con le loro idee. Poco tempo dopo, in tutta Italia ne furono istituiti svariati, uno tra questi fu quello di Alatri, in provincia di Frosinone, che nel 1941 venne allestito come campo di internamento civile, all’epoca il ministro Buffarini aveva emanato un documento per cui si faceva obbligo a tutti i cittadini ebrei di autodenunciare allo Stato Civile la loro razza di appartenenza. Le Fraschette, con le sue 147 baracche, entrò in funzione il 1°ottobre del 1942 e rimase attivo fino al 19 aprile del 1944, nonostante inizialmente fosse stato progettato per ospitare prigionieri di guerra, poi in realtà si trasformò in un campo di internamento che raccoglieva quasi seimila persone, quasi tutti civili di origine, anglo-maltese, slava, dalmata, greca, croata, montenegrina, albanese, ovvero di appartenenza a tutti quei paesi in guerra con Mussolini, imprigionati in quegli anni. La struttura fatiscente e le scarse condizioni di vivibilità a causa del sovraffollamento, di igiene e di spazi, lo rese una delle vergogne più grandi nel panorama italiano, soprattutto perché venne utilizzato anche in seguito alla fine dei conflitti ospitando i prigionieri tedeschi prima e i profughi damati e slavi poi, ma difficile a credersi, fu utilizzato addirittura alla fine degli anni ’60, quando venne impiegato per ospitare gli italiani espulsi dalle ex colonie i quali venivano rimpatriati in Italia e si trovavano a vivere in condizioni al pari dei profughi stranieri.
Dato che non abbiamo testimonianze filmate di quel tempo del Campo di Internamento delle Fraschette, ma solo ottime fotografie del collega Romeo Fraioli, che ha ripreso l’intera struttura ora in rovina, approfitto invece di un bel servizio di Alberto Angela “Ulisse: Un viaggio senza speranza”, presentato nell’occasione del Giorno della Memoria, che ci ha mostrato il campo di sterminio per eccellenza, Auschwitz, uno dei tanti i luoghi dove erano attivi i forni crematori e dove i prigionieri ebrei venivano ammassati dopo un viaggio estenuante all’interno di vagoni dove venivano stipati al buio e senza spiegazioni, venivano identificati e poi selezionati in base al sesso, all’età e al fatto che avessero una struttura fisica adatta a poter lavorare all’interno dei campi. Quelli che venivano ritenuti inutili ad essere sfruttati per la loro prestanza fisica, venivano eliminati subito, all’interno delle camere a gas. Dicevano loro di sbrigarsi a spogliarsi nudi per poter fare una bella doccia, prima di una buona zuppa calda, e loro si spogliavano di buon grado con l’idea finalmente di lavarsi e poi di mangiare.
L’ambiente dove erano collocate queste ipotetiche docce, era uno stanzone dove venivano ammassati anche in ottocento alla volta e dove veniva scaricato un veleno in granuli che a contatto con il calore rilasciava una sostanza tossica venefica, il cianuro che inevitabilmente inalato provocava il blocco della muscolatura mortale ma non istantanea quella respiratoria e cardiaca, che giungeva dopo drammatici minuti di convulsioni, perdita di sangue da naso, occhi e orecchie, spasmi e dolori lancinanti. Una volta aperte le porte li trovavano accatastati uno sull’altro ne tentativo di salire più in alto, dove il gas arrivava più rarefatto, chiaramente i bambini, gli anziani e quelli rimaneva schiacciato a livello del pavimento erano i primi a morire. Ci spiega che tutto veniva calcolato alla precisione, per essere riutilizzato durante l’accettazione venivano tolte loro le cose preziose, anelli, orecchini o orologi, le scarpe ed i vestiti accumulati in spazi ben organizzati dove potevano essere selezionati per poi venire riciclati e distribuiti alla popolazione tedesca in grave difficoltà finanziaria a causa della guerra. Si rimane senza parole nel vedere la montagna di scarpe, tra cui quelle rosse numero 24, le scarpette della domenica, quelle della poesia declamata dal grande Gigi Proietti.
Una catasta di occhiali alta come una montagna ci lascia intuire la massa di persone che passarono per quel campo di sterminio, dove tutto veniva selezionato e separato, vediamo valigie, oggetti di cucina, le spazzole per capelli, i pennelli della barba, insomma tutto ciò che poteva essere utile. Addirittura, venivano rasati a zero i capelli perché servivano per essere poi utilizzati nella fabbricazione di scarponi resistenti alle basse temperature. Questi erano i campi di sterminio, luoghi ideati ad hoc per svolgere questo tipo di selezione ed eliminazione delle persone (ricordiamo che non ospitavano solo ebrei, ma anche razze etnicamente non apprezzate come i nomadi, gli zingari, i dissidenti e anche gli omosessuali). Solitamente questi campi venivano individuati in aperta campagna, lontano dalle città, dove magari sorgevano già edifici in pessime condizioni o inutilizzati come vecchie fabbriche, scuole, caserme abbandonate. Ricordo i racconti di un mio parente alla lontana, Rodolfo Marini, un trasteverino doc, fatto prigioniero di guerra e detenuto dentro un campo di concentramento tedesco, che ci raccontava come soffrivano una fame inenarrabile, tanto che tutto il terreno che correva lungo il perimetro e che era possibile toccare allungando il braccio fuori dalla rete di recinsione, era completamente privo di erba, nemmeno un filo era rimasto perché usavano strapparla e utilizzarla come cibo.
Tutte le persone costrette ad essere recluse in quei luoghi erano destinate a subire difficili condizioni di vita sopportando privazioni di ogni tipo, vivendo in quei luoghi insalubri, con temperature proibitive, privi di vestiario adatto, totale mancanza di igiene, con ritmi di lavoro disumani, affamati, assetati e soggetti a continue vessazioni fisiche e psicologiche. In Italia, fu grazie al libro scritto da una donna, Maria Eisenstein, pubblicato nell’ottobre del ’44 da un autore illuminato e coraggioso come Donatello De Luigi, che immediatamente dopo la liberazione di Roma, diede alle stampe il racconto di Maria dal titolo Internata n.6 Donne tra i recinti del campo di concentramento, che abbiamo una prima testimonianza diretta di un campo di concentramento fascista. Dobbiamo ringraziare anche questa donna se, grazie alle sue memorie ed ai suoi racconti, abbiamo la possibilità di rivivere le esperienze relative all’internamento civile durante il periodo fascista ed inoltrarci lungo un cammino drammatico, terribile, buio e nefasto della storia dell’uomo.
di Silvia Amadio
*foto di copertina di @romeofraiolifotografo