Chiamatemi Ismaele
Il brivido della baleniera che si fonde, al primo manifestarsi, con il terrore sacro e puritano. Una immensa opera, da leggere non dimenticando la Bibbia, scriveva Pavese, perché questo non è un romanzo d’avventura, lungo e oscuro. È un poema sacro in cui non mancano i riferimenti al cielo e alla terra che interferiscono, dal primo estratto: “ E Dio creò grandi balene” fino all’epilogo “ E io solo sono scampato a raccontarvela, chiamatemi Ismaele.
Un capolavoro di regia e di scenografia, di musiche e costumi. Un’opera immensa come la balena. Al teatro Quirino di Roma, Guglielmo Ferro mette in scena Moby Dick di Hermann Melville, in modo eccellente, fantastico, stupendo e inquietante e meraviglioso. Riesce a dare anima e presenza all’assenza del vero protagonista: il leviatano, come viene chiamata nella Bibbia la balena. Una assenza resa tangibile dai dialoghi serrati ad incastro sul ponte inclinato di una baleniera: il Pequod. Moby Dick è uno spettacolo di estrema complessità, le interpretazioni sono molte e diverse, ma Guglielmo Ferro di indica la rotta del suo veliero, per comprendere una così vasta e articolata “tragedia”. La compagnia è di prim’ordine, Moni Ovadia e Giulio Corso nelle parti del capitano Achab e di Starbuck il suo alter ego. Il male e il bene in eterno conflitto sugli aspetti etici della spiritualità, ma anche sulla quotidianità attraversata dalla presenza costante di Dio. Tutto accade, il mosaico delle parti si compone pezzo dopo pezzo, gli attori sul palco, Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondi, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte, mettono al centro dei loro dialoghi, questioni attuali, quando Starbuck/Corso dice a Achab/Moni che non si abbandonano uomini in mare. Il salvataggio, il soccorso in mare aperto è il primo comandamento etico e morale al quale attenersi. Non rispettato da Achab per sete e ossessione di vendetta, ne dall’equipaggio per avidità di guadagno. Il denaro e la vendetta oscurano la ragione e il sentimento, dando valore più alla moneta d’oro che alla vita umana. Ma anche quando l’arpioniere Queequeb, soprannominato il cannibale, perché proveniva da una isola dove il cannibalismo era la normalità, dice : dovremo inginocchiarci davanti alla balena. Esprime un concetto di rispetto profondo per la natura e per il pianeta. Ci sottolinea che il cattivo non è Moby Dick, ma coloro che l’hanno descritta tale con menzogne e notizie inventate. Ciò che accade oggi con le fake news con cui ci raccontano le guerre, dicendo che sono giuste, o di come non soccorrono uomini e donne in mare, dicendo che è giusto bloccare le ong che raccolgono i naufraghi. Una baleniera che con il consenso attivo dell’equipaggio si avvia alla autodistruzione consapevole, partorita dalle menti offuscate dall’odio, dall’egoismo, dalla avidità. La autodistruzione della umanità tramite, genocidi, guerre, fame, inquinamento, consumati con il consenso di coloro che sono le vittime di questa autodistruzione. La lotta del bene e del male, racconta la lotta eterna di Moby Dick e il capitano Achab, in cui tutti muoiono, ne sopravvive uno solo: Ismaele, aggrappandosi ad una bara. Lo recupera la nave alla quale Achab aveva negato il soccorso. Il cerchio si chiude e tutto inizia di nuovo, verso la autodistruzione umana e del pianeta. Guglielmo Ferro chiude il sipario con l’incipit del libro: Chiamatemi Ismaele.
Claudio Caldarelli