Lettera a una professoressa

Don Lorenzo Milani

Scuola di Barbiana

Il libro, pubblicato a Firenze nel 1967, è stato un’icona e un simbolo durante e dopo il ‘68, per l’appassionato appello civile, morale, sociale e umano e per il messaggio rivoluzionario che credeva possibile un cambiamento radicale della società.

Scritto da otto ragazzi della scuola di Barbiana sotto la guida di Don Milani, è una denuncia verso la scuola formale, che accoglie solo gli studenti più bravi e allontana gli “svogliati”, provocando una profonda ingiustizia sociale, nonostante si parli di scuola dell’obbligo aperta a tutti.

Scrivono in forma epistolare rivolgendosi ad una professoressa, che fa le veci della rappresentante di questa scuola antidemocratica e ingiusta: “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”[1].

“Loro”, i respinti, gli esclusi, sono figli di contadini, di lavoratori, obbligati nei campi o al lavoro per aiutare la famiglia nella difficile gestione della vita quotidiana, con meno possibilità ed anche meno voglia di andare a scuola, anche se “la scuola sarà sempre meglio della merda”, come disse Lucio, che aveva mucche e stalle da pulire.

A Barbiana, dove non esisteva la ricreazione e “non era vacanza nemmeno di domenica” (“Nessuno di noi se ne dava gran pensiero, perché il lavoro era peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto”[2]) lo studio si svolge in modo collettivo e tutti gli studenti vengono responsabilizzati, diventando anche insegnanti di altri come loro: “Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”[3].

Una sorta di “scuola monitoriale” e di “mutuo insegnamento” che aveva un grande contenuto educativo espresso nel ragionamento di Don Milani con i propri ragazzi sul mondo e sugli avvenimenti concreti. Una delle attività fondamentali era infatti la lettura dei giornali: “(…) non c’è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. È la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita. Proprio per questo bisogna leggerlo. È come gridarvi in faccia che un lurido certificato non è riuscito a trasformarci in bestie. Lo vogliamo solo per i nostri genitori. Ma politica e cronaca cioè le sofferenze degli altri valgono più di voi e di noi stessi”[4].

Nella scuola di Barbiana veniva rifiutata quella pedagogia appartenente alla cultura e all’ideologia dominante e borghese, di cui la scuola ufficiale ne era l’espressione, considerandola come una scienza troppo astratta e deformata rispetto alla realtà: “È l’aspetto più sconcertante della vostra scuola: vive fine a se stessa”.

Nel testo i ragazzi espongono dati statistici, schemi, notizie, grazie ad un enorme lavoro di investigazione, citando sempre le fonti a supporto delle loro tesi.

Così raccontano dell’abbandono scolastico, che riguarda maggiormente i figli dei contadini e dei poveri: infatti per queste famiglie era uno sforzo economico maggiore mandare i figli a scuola, che puntualmente venivano bocciati più volte, costringendoli a dover lasciare l’istruzione ad un certo momento, per non pesare troppo sull’economia famigliare: “Gianni sa bene che non è bello lavorare, ma ha voglia di riportare la busta. Gli secca d’esser rimproverato d’ogni soldo che spende. I genitori stessi insistono sempre più debolmente. Ci voleva in loro e nel ragazzo una costanza che è di pochi. Una passione per lo studio nata da sé e così forte da non lasciarsi abbattere dagli insuccessi. Ci voleva una mano da parte vostra. La mano l’avete stesa per farlo ruzzolare”[5].

Per questo la proposta che i ragazzi di Barbiana fanno attraverso la lettera è quella che la scuola dell’obbligo non debba bocciare ma, anzi, dovrebbe far trovare la motivazione e gli stimoli giusti proprio a questi studenti che non hanno gli strumenti sufficienti per poter apprezzare o comprendere, fin da subito, l’importanza dell’educazione: “Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I- Non bocciare. II- A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno. III- Agli svogliati basta dargli uno scopo”[6] (pag. 66).

L’articolo 34 della Costituzione italiana, in vigore dal 1948, dichiara l’obbligo scolastico per almeno otto anni, in forma gratuita.

Nel 1962 avvenne la riforma della scuola media unificata, con obbligo scolastico fino a 13 anni e abolizione della scelta a dieci anni se continuare a studiare per andare alle superiori o se avvicinarsi all’avviamento professionale.

Ma la dispersione scolastica rimane molto alta: “Abbiamo letto la legge e i programmi della nuova media. La maggioranza delle cose scritte lì a noi ci vanno bene. (…). Fa tristezza solo saperla nelle vostre mani. La rifarete classista come l’altra?”[7].

Inoltre, come affermano proprio i ragazzi di Barbiana, la legge del 1961 sulla “Tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli” proibiva il lavoro prima dei 15 anni, ma in realtà questa legge non valeva per i contadini: “La razza inferiore non ha fanciulli. Siamo tutti uomini prima del tempo”.

Insomma, un libro-dichiarazione contro la stratificazione sociale, l’immobilismo delle classi contadine, contro una borghesia padrona della cultura e quindi del futuro di milioni di ragazzi poveri, contro una pedagogia che non dice “Che i ragazzi sono tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie”.

E tutto questo grazie ad un prete, in una piccolissima città di montagna, che rende viva l’esperienza di alcuni giovani ragazzi esclusi: “La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va vanti”[8].

Parlano di eguaglianza come un dovere, i ragazzi di Barbiana, pensando a quegli uomini che si trovano nella loro stessa condizione di diseredati e miserabili, agli occhi dei più: “In Africa, Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità”[9].

Vorrebbero che la scuola si avvicini alla vita reale, quotidiana, con i suoi problemi e i suoi dibattiti, alla vita che loro vivono ogni giorno nei campi, nelle stalle, nelle strade: “Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri”[10].

Erasmo da Rotterdam consigliava la lettura degli autori che “affrontano i problemi concreti e non tanto di quelli che offrono solo esempi di stile. (…) Per farne apprezzare la lettura gli autori classici devono essere costantemente riferiti alla vita quotidiana e collegati alle varie discipline, dalla teologia all’agricoltura, dalla geografia alla storia”[11].

Anche Pestalozzi, nell’800, proporrà un’istruzione legata alla necessità di “partire dall’intuizione, dal contatto diretto con le diverse esperienze che ogni allievo deve concretamente compiere nel proprio ambiente. Senza “fondamento intuitivo” ogni “verità” è per i ragazzi solo un “gioco noioso” e “inadatto alle loro capacità”[12].

Don Milani, inoltre, è in contrasto con ciò che affermavano i gesuiti nel ‘500, sostenendo che  l’istituzione scolastica dovesse promuovere un’obbedienza assoluta all’autorità civile e religiosa (“L’obbedienza è una virtù”[13]), mentre Don Milani sosterrà, a duro prezzo, che “l’obbedienza non è più una virtù”, nella speranza che i giovani possano imparare a sviluppare una coscienza critica capace di contrastare anche le regole sociali, se necessario, quegli obblighi che vanno contro la propria coscienza, sempre però mantenendosi nella legalità: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”[14].

A questo concetto fa riferimento quello di “responsabilità”, che collega Milani direttamente a Socrate e alla sua scelta di morire per affrontare le conseguenze delle sue idee: non sfuggire a quella legge di cui si è figli, anche se l’amore per la stessa è così grande da criticarla e subirne le conseguenze.

Recensione di Francesca Mara Tosolini Santelli


[1] Scuola di Barbiana, Don Lorenzo Milani, Lettere a una professoressa, Mondadori, Milano, 2017, pag. 7.

[2] Ivi, pag. 9.

[3] Ivi, pag. 15.

[4] Ivi, pag. 21.

[5] Ivi, pag. 43.

[6] Ivi, pag. 66.

[7] Ivi, pag. 24.

[8] Ivi, pag. 92.

[9] Ivi, pag. 66.

[10] Ivi, pag. 95.

[11] Franco Cambi, Manuale di storia della pedagogia, Laterza, Bari, 2009, pag. 123.

[12] Ivi, pag. 199.

[13] Ivi, pag. 129.

[14] Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari, Lettera ai giudici, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2017.

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