Prendersi cura

La vulnerabilità.

Nel 1943, dal campo di smistamento di Westerbork, Etty Hillesum, ebrea olandese, scriveva: «Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione , allora non siamo una generazione vitale»2.

Oggi, gli interventi educativi, la medicina e la farmacopea, pur con differenti approcci, salvano i corpi, curano il malessere e sedano le paure sociali… tanto che il disagio e alcune sue manifestazioni, come la tossicodipendenza, sono entrati gradualmente a far parte del tessuto connettivo della società.

Le ideologie poi, e non solo esse, mediano una concezione parziale della salute e di conseguenza del prendersi cura della salute dell’altro, puntando alla salvaguardia della salute del corpo… soprattutto dei cosiddetti “sani” e “normali”.

Questa ottica si spiega, appunto, con un concetto riduttivo del “prendersi cura”, legato alla salvaguardia sia del male corporale sia di una maggioranza del corpo sociale. Laddove si dovrebbe riflettere sulla molteplicità e profondità del dettame etico del “prendersi cura dell’altro” che non può eludere la salvaguardia della “qualità della vita” per tutti.

La constatazione di fondo rimanda ad altri due concetti: la vulnerabilità e la responsabilità della persona, nel quadro delle possibilità di fruire, appunto, di una qualità di vita.

L’uomo è per sua essenza debole e vulnerabile nel corpo e nel profondo del suo essere.

Malattia, rischio e sofferenza compongono il suo situarsi nel reale dalla nascita in poi.

E la società, da sempre, ha inventato modi sia per strumentalizzare tali vulnerabilità, si pensi alla pubblicità , o per curarle, si pensi alla medicina.

Come convivere con queste vulnerabilità per evitare che diventino in taluni casi cronicità, senza per altro colludere con esse o strumentalizzarle, è uno degli interrogativi ineludibili.

Prendersi cura del disagio, infatti, non è renderlo invisibile o trasformare la vulnerabilità in una nicchia sociale, è approdare anche al concetto di responsabilità.

Responsabilità sia del singolo sia della società nei confronti del disagio e delle possibilità di “problem solving” da attuare, almeno per evitare cronicizzazioni e stigmatizzazioni che producono derive sociali.

Una prospettiva etica esige di non colludere o mimetizzare il disagio, tanto meno di ridurre in categorie il danno che ne deriva per il singolo e la società.

Vulnerabilità non significa necessariamente assenza di responsabilità o indifferenza o assoluzione.

Un atteggiamento etico implica anche l’assumersi le responsabilità di coloro che al momento non sono in grado di rispondere di se stessi, aiutandoli a compiere delle scelte che li riscatti dal disagio, secondo un ‘ottica educativa.

Prendersi cura, quindi, non solo dell’incolumità di chi teme il “contagio” e i danni  del disagio altrui.

Prendersi cura, invece, dell’altro e della sua vulnerabilità affinché egli possa riproporsi nella sua dignità personale e arricchirsi di nuove prospettive, in quanto salvare il corpo o salvare la vita solo da uno stato di prigionia – quale il disagio o la devianza – non è sufficiente ai fini di una crescita etica della persona e della società.

La qualità consiste, non nella valutazione statistica dei risultati o del sistema, bensì nel come verrà conservata quella vita salvata, con quale stile di vita verrà rielaborata la vulnerabilità affinché ogni esperienza della persona diventi seme vitale.

Infatti, chi confonde, sovente per fini ideologici, la vulnerabilità con la libertà, in fondo propone diverse categorie di uomo scandite dal grado di condizionamento in cui gli si permette – o lo si costringe – di vivere.

Se uno Stato ha il dovere di tutelare tutti i cittadini non può accettare sottili distinzioni di fronte a qualsiasi fenomeno che danneggia o condiziona lo stile di vita armonico e la salute psicofisica dei cittadini stessi.

Si possono accettare dei compromessi in itinere, a livello terapeutico o rieducativo, non nei confronti dell’obiettivo finale cioè il garantire generazioni vitali per il futuro dell’uomo.

Dentro la vulnerabilità: la dipendenza.

La lapidaria definizione dell’OMS sulla tossicodipendenza quale “malattia cronica recidivante”, piuttosto deludente dal punto di vista pedagogico-riabilitativo, è uno dei tanti esempi di come certa cura debba esprimersi per categorie e statistiche, legate ad una supposta guarigione, che producono sia feed-back pessimistici sia nicchie sociali di emarginazione, come gli antichi “lazzaretti”.

Il tossicodipendente non riesce ad amare né se stesso, né chi lo circonda in quanto vive in maniera deficitaria e stravolta il rapporto col proprio essere e col proprio stare nella realtà e nel mondo, per cui in tale contesto troviamo una sofferenza profonda e sorda che si anestetizza e, paradossalmente, si alimenta tramite la dipendenza dalla o dalle sostanze, più che una “malattia” conclamata.

Come curare, allora ?

La dipendenza da sostanze si può curare o contenere col farmaco (antagonista o da mantenimento) anche se può indurre, data la cronicità, identità ambigue di chi nel contempo è e non è tossicodipendente, in quanto slegato dalla sostanza ma legato a un farmaco che non guarisce.

La sofferenza, invece, esige incontro, empatia, identificazione… cioè relazione.

Attraverso questa relazione si stabilisce un rapporto e si entra nel cuore di una possibilità legata ad un progetto educativo, dove chi educa funge da “medium” fra la vulnerabilità della persona e la realtà interna ed esterna ad essa, grazie alla “parola”, che è nel contempo espressione e gesto dotata di significato.

Ed è sul significato che si gioca la carta del prendersi cura.

La parola che cura  è la parola che significa qualcosa all’interno di una relazione interpersonale.

Riferendoci al tossicodipendente, non è sufficiente la parola che consola che stila una diagnosi o quella che raccoglie e rilancia le rivendicazioni di ci si sente emarginato… anzi tali parole possono essere elementi estranei o disturbanti, se non strumentalizzazioni della sofferenza altrui. che alla lunga tradiscono lo stesso soggetto.

Tornando alla relazione educativa, possiamo intendere il “prendersi cura” quale progetto di crescita, dove il soggetto può ritrovare se stesso e il proprio situarsi nel mondo, mutando atteggiamenti, comportamenti e sentimenti … da thanatos a eros.

Un percorso che, come tutti i processi di cambiamento, non è per nulla facile, abbraccia diversi fattori e variabili e può essere compreso in un’ottica sistemica. Laddove la parola, che si fa gesto e relazione, è sovrana anche se non unica.

La parola, prima di ogni altro strumento fosse anche il più potente farmaco, è la sola capace di agevolare la ricerca di un significato che dia senso al vivere in costante equilibrio con la propria vulnerabilità. Si possono togliere il dolore e le ferite del corpo, non la sofferenza e la “non voglia” di vivere: esse vanno rielaborate e superate per vivere “meglio”.

Parola che diventa dialogo e permette l’accoglienza, agevola la rielaborazione della propria esperienza e apre al cambiamento. In questo senso si può aprire un orizzonte di nuovi significati che trasformano la persona e la liberano dal ristagno della commiserazione e dalla rabbia o dalla cronicità psicologica dell’infermità, nelle quali si consuma la frustrazione della sopravvivenza e non la vitalità di eros.

Parola che fa uscire dal ghetto, dal disagio e che non chiude in un’illusoria isola terapeutica; quale fondamento di ogni cura, che permette di relazionare; che apre alla partecipazione emotiva oltre che intellettuale: percorso obbligato soprattutto per chi vuole prendersi cura dell’altro.

Olivenstein, nel “Destino del tossicomane”, scrive: “Ma come la scienza senza coscienza non esiste o diviene fuorviante, non vi è clinica se non si accede a ciò che è essenziale per l’uomo: la poesia, la filosofia, l’affettività”.

Questa capacità di “sentire le emozioni”, non solo dentro la clinica con i tossicomani, è il valore aggiunto del prendersi cura.

Partecipazione emotiva piuttosto disertata nelle aule universitarie e dalla comunicazione di massa, che investe superficialmente l’uomo con “overdosi” di informazioni, lasciandolo nella palude della parola tecnica o consumistica, senza possibilità di feed-back, cioè di relazione.

Partecipazione emotiva sovente assente nelle famiglie, in quanto più attente all’allevamento e all’accudimento della prole che non al processo globale educativo e ignare del disagio che, in tal modo, seminano anche a beneficio di possibili dipendenze.

Lo snocciolarsi della storia personale, frutto di esercizio della relazione, genera, nel prendersi cura, una dinamica di svelamento con la quale il soggetto nel disagio può confrontarsi in modo speculare con gli altri, attribuendo significati a quella che prima era solo una serie di eventi.

Inoltre, la narrazione del soggetto risulta una preziosa fonte di orientamento per progettare il prendersi cura e determinare oggettivamente il bisogno, al di là della manifestazione di un sintomo.

Gli studi sul metodo autobiografico, da Lutte a Demetrio, hanno dimostrato tale efficacia che deve, comunque, sortire al passo successivo della rielaborazione dell’esperienza e della sofferenza, cioè del nocciolo cha ha scatenato il disagio.

In tale contesto, la parola si può anche amplificare nel gruppo di condivisione e di confronto, acquistando un’eco suggestiva e catartica per chi vuole raccontarsi.

Parola come memoria, come restituzione di un’esperienza, anche se negativa, che riverbera a livello cognitivo ed emotivo acquistando significato e perciò fertilità.

In questo senso la parola “cura” poiché permette di riappropriarsi di ogni aspetto di sé e della propria vita; di ricontestualizzare i conflitti interni ed esterni a se stessi; di sentire l’eco delle pulsioni, dei sentimenti e della ragione, in un viaggio a ritroso dentro se stessi, ma insieme agli altri, diametralmente opposto alla fuga esistenziale che espropria il soggetto dal proprio Sé.

Un viaggio confezionato a misura del viaggiatore e monitorato da chi si prende cura, meglio con l’ausilio di un’équipe, adatta ai vari interventi secondo un approccio multidisciplinare, in modo da tracciare un arco che parte dall’accogliere e arriva allo svincolare, offrendo al soggetto fondamentalmente luoghi psicologici, cioè riferimenti d’incontro e relazione.

Affinché il viaggio continui con nuove mete, avendo per protagonista il soggetto stesso, ricco dei significati di cui si è riappropriato e capace di prendere la parola.

La variabilità del prendersi cura.

Il prendersi cura assume diversi significati a seconda dei contesti in cui si inserisce e, in ogni caso, per essere efficace non è sempre sufficiente che si declini secondo i termini di un’assistenza, assimilabile alla pur meritoria figura del “Buon Samaritano”, ma deve rispondere a criteri oggettivi e metodologicamente fondati.

Nell’ambito delle dipendenze il prendersi cura, oltre a stemperarsi nella fondamentalità della relazione interpersonale ed educativa, presuppone un’attenzione particolare al tossicodipendente, soprattutto oggi che la tossicodipendenza è corollario di altri disagi o patologie.

Ne consegue l’adozione di un criterio di base che ammette, come presupposto, la variabilità dei trattamenti, cioè la possibilità di molteplici scenari in cui inscrivere il prendersi cura alla luce della personalità e dei bisogni del tossicodipendente in modo da adire scelte conseguenti, che possono essere immediate e/o obbligate dal grado di urgenza e/o possono preludere a interventi di maggiore respiro.

Nella prospettiva educativa il servizio (di qualsiasi genere) viene per la persona, intesa nella sua globalità e non solo nel problema che presenta, per cui può anche prescindere dal bisogno immediato della persona laddove la progettazione di un intervento adeguato alla situazione è diversa dalla presa in carico del soggetto.

 Un primo elemento, dunque, consta nel chiarire il grado di disagio psico-sociale di cui è portatore il soggetto, se cioè sia circoscritto nel normale corso della vita o se sia una modalità appartenente allo stile di vita del tossicodipendente, magari correlato ad una patologia.

Le conseguenze etiche e pratiche sono consistenti così come i termini utili a definire il contratto del prendersi cura fra la persona e il servizio.           

Un secondo elemento è dato dal significato stesso del termine “trattamento”.

In generale è sinonimo di “cura”, proprio come una delle etimologie del verbo “educare”. Come l’azione educativa non può ridursi all’apprendimento e all’addestramento ma implica il coinvolgimento sempre più responsabile dell’educando così il trattamento non può essere mera scelta di un metodo terapeutico; né la relazione interpersonale fra soggetto ed operatore o educatore può viaggiare secondo i parametri dell’imporre o del dell’assecondare con il rischio di involvere in situazione di clientela o di manipolazione, foriera di successive dipendenze.

Abbiamo visto, infatti, che la cura si può declinare secondo due direttrici: quella parziale del fornire dei mezzi per la guarigione o quella diretta ad aiutare la persona affinché ritrovi se stessa.

Penso, allora, che prima del trattamento sia lecito chiedersi cosa vediamo e come consideriamo il tossicodipendente che si presenta a noi, rispetto all’unicità della sua persona e all’inquadramento della propria sintomatologia. Sappiamo, infatti, come il termine tossicodipendenza sia oggi complesso e sgusciante per cui il definire la tossicodipendenza di una persona appare problematico. Si pensi agli adolescenti, agli extra-comunitari, ai soggetti con problemi psichiatrici… e alle “culture” di cui sono emissari, nelle quali  l’abuso o la dipendenza assumono connotazioni particolari.

Le interpretazioni della tossicodipendenza e del tossicodipendente hanno, fino ad oggi almeno,  più contribuito a fondare un consistente apparato fenomenologico che non a trovare “il trattamento” o la modulazione delle “variabili”. Ciò non toglie che l’esperienza abbia, comunque, permesso di dare delle risposte; soprattutto i fallimenti o gli aggiustamenti in itinere hanno, a mio parere, ribadito che più evolve il fenomeno, meno si può fondare il trattamento su preconcetti o ideologie, soprattutto se si antepongono gli apparati alla persona.

Ne consegue che le variabilità nei trattamenti vanno proposte e modulate “nel rispetto delle competenze acquisite da diversi operatori in campi settoriali, secondo molteplici obiettivi perseguibili con l’apporto di tutti coloro che, a vario titolo e da punti di osservazione diversi, hanno maturato esperienze e riflessioni confrontabili con il background di conoscenze sul fenomeno droga”3.

La garanzia del trattamento può essere data dalla domanda iniziale da cui scaturisce.

Parafrasando Olievenstein, a dipendenze “comode” o “scomode” possono contrapporsi trattamenti altrettanto “comodi” o “scomodi” secondo il grado sia di adesione e cambiamento che richiedono alla persona sia, conseguentemente, di efficacia sulla remissione della dipendenza, in linea con il prendersi cura, o sulla sintomatologia, riferita a offrire delle cure.

Un esempio è fornito dai trattamenti “a mantenimento”.

Si tratta, qui, di capire quale funzione esplica la tossicodipendenza nella personalità e nella vita del soggetto ovvero con il trattamento cosa si scardina, cosa si sostituisce, cosa si restituisce.

E’ lecito ed efficace proporre a quella determinata persona una sicura protesi, prescindendo dagli effetti collaterali, o la si può aiutare ad osare un maggiore svincolamento della propria vita ? Dalla risposta nasce la variabilità che comunque prende le mosse dalla persona e non dall’eccellenza del modello.

Due esempi di trattamento antitetici mi sembrano emblematici, tratti da studi e ricerche internazionali:

  • nel primo “l’efficacia del mantenimento sembra essere molto forte nella riduzione di comportamenti criminali legati alla droga. Questo trattamento ha un moderato effetto nella riduzione dell’uso illecito di oppiacei e comportamenti criminali legati alla droga e contro la proprietà, nonché un effetto da modesto a discreto nei comportamenti che abbassano il rischio HIV”4;
  • nel secondo, viene evidenziato (negli USA) “l’importante successo delle Comunità Terapeutiche per il recupero del sottogruppo dei consumatori (…) in mediai pazienti sottoposti a trattamento mostrano una riduzione post dimissione durevole nell’uso di droghe illecite”5.

In tal senso la consapevolezza dell’offerta di aiuto si deve fondare non su quello che la persona chiede ma su altre variabili che influenzeranno a loro volta la variabilità:

  • il contesto in cui nasce la richiesta
  • l’esame obiettivo-clinico e la storia del soggetto
  • il grado di consapevolezza del soggetto e le risorse che può impiegare, a livello personale ed esterno
  • il tipo di relazione in cui il soggetto pone dipendenza, astinenza e comportamenti compulsivi
  • la percezione che il soggetto ha del servizio
  • la correlazione in cui il soggetto pone bisogno e richiesta d’aiuto
  • la qualità della relazione che si instaura tra il soggetto e l’operatore
  • la possibilità di contrattualità raggiungibile
  • la possibilità di riferirsi ad una rete di servizi

Un ulteriore elemento atto a fondare la variabilità dei trattamenti consta, a mio avviso, nell’economia

del trattamento stesso.

Con ciò intendo la possibilità di monitorare i benefici dello stesso in una scala discente dal problema chiave al resto della qualità di vita della persona fino ad arrivare, per ambiti di popolazione, a tracciare indici di maggiore e migliore vivibilità fuori dalla galassia delle dipendenze.

Quindi, a sostegno della variabilità si dovrebbe anche porre la ricerca intesa come informazione sistematica sullo sviluppo dei nuovi interventi, sul potenziale delle persone cui si riferiscono i trattamenti, sull’operato e il follow-up del sistema di trattamento anche dopo un certo tempo di dimissione dei soggetti, sull’evoluzione dei bisogni di trattamento e sostegno degli abusanti.

Inoltre, flessibilità, formazione continua e impiego delle risorse umane, secondo il principio dei bisogni emergenti e non della disponibilità attuale, risultano indispensabili per l’adeguatezza di qualsiasi proposta trattamentale. Considero, per esempio, sterile e offensivo il vecchio adagio che contrappone operatori del pubblico a quelli del privato-sociale.

L’equifinalità dei trattamenti, che dimostra come metodi diversi approdino a risultati simili e viceversa come da situazioni similari si raggiungano risultati differenti, dimostra sia che la prima variabilità consta nella persona e non nella sostanza sia che le differenze non annullano le identità.

Il futuro del prendersi cura e le Comunità terapeutiche6

Ciò che nasce o evolve o cristallizza e muore, al di là delle proprie caratteristiche intrinseche.

Il principio del cambiamento, tocca ogni realtà umana e provoca anche le strutture che l’uomo crea in risposta a propri bisogni. Oggi, infatti, non saremmo attrezzati e capaci di vivere in una caverna nelle stesse condizioni dei nostri progenitori del paleolitico.

La Comunità Terapeutica, quale frutto quanto mai provvidenziale dei nostri giorni, anch’essa sottostà all’evidenza dello scorrere del tempo e ai cambiamenti che esso si porta appresso.

Risulta già evidente, per citare un esempio italiano, come sia mutata la tipologia degli utenti delle CC.TT.: persone sempre più psicologicamente destrutturate; molto vulnerabili; figlie più del farmaco succedaneo che non della volontà di risolvere radicalmente la dipendenza .

Anche il clima sociale nei confronti delle Comunità registra mutamenti: da una parte, il fronte della liberalizzazione e dell’uso regolato di eroina guadagna terreno, nascondendo il volto di discriminazione, disinteresse e ghettizzazione verso il tossicodipendente, dietro la maschera di un welfare pragmatico, tollerante, rispettoso di libertà e “cambiamenti” della mentalità sociale. Dall’altra, le CC. vengono riproposte soprattutto in termini di contenimento delle marginalità e di controllo sociale, snaturando il principio ispiratore delle stesse Comunità e la matrice etica del prendersi cura.

Lo stesso dicasi per la composizione dell’ équipe di lavoro che  registra un innalzamento del livello di professionalità dovuto sia all’innalzamento dei titoli di accesso provocato dalla legislazione corrente sia alla complessità dell’utenza; nel contempo ci si interroga su quale matrice valoriale poggi ancora il lavoro degli operatori e quale consapevolezza possiedano gli stessi a proposito del lavoro di comunità.

Sono questi, particolari ma significativi esempi di come cambia l’orizzonte su cui si affacciano le CC.TT. per cui si pone l’interrogativo fondamentale, relativo all’epistemologia e al futuro delle CC. TT..

Proverò,  quindi, a concettualizzare alcune ipotesi che, nel rispetto dei segni del tempo, possono indirizzare la ricerca e, nel contempo, contribuire ad aggiornare il volto delle comunità.

1)         La teorizzazione delle comunità[6], anche nella chiave più moderna, deve comprendere sia la matrice educativa, sia la valenza simbolica che ispirano la comunità stessa.

A          L’atto di educare, nella duplice dinamica dell’agevolare l’espressione delle potenzialità individuali e nel guidare la persona verso la propria realizzazione, rimane il primo e principale elemento nella relazione con il disagio. Esso si distingue sostanzialmente dall’azione psicologico clinica (tipica della psicoterapia e degli approcci farmacologici, psichiatrici e ambulatoriali) e stabilisce un rapporto terapeuta-malato (nelle varie accezioni) determinato dalla remissione, parziale o totale, del sintomo e slegato dallo stile di vita dell’ utente; praticamente, un prendersi cura del sintomo.

La vasta querelle scientifico-operativa, a tale proposito, lascia spazio a diverse posizioni e filosofie d’intervento per cui la C.T. é implicitamente chiamata a riaffermare il principio educativo.

A tale proposito si deve superare lo stato di incertezza, che avvolge la nicchia sociale in cui la C.T. viene collocata, infatti, le CC.TT. offrono una gamma d’impiego e di competenze più vaste di quelle messe a disposizione dalla pubblica amministrazione e con meno intoppi burocratici e limiti intrinseci.

Basti pensare alle richieste soddisfatte nei confronti della prevenzione, del sostegno alle famiglie e ad utenze con gravi patologie cioè di un prendersi cura a vasto raggio.

Orizzonti, certamente, più complessi di quello meramente terapeutico-sanitario anche se, in Italia, sottoposti a tutele pubbliche declassanti.

Lo stesso concetto di “comunità”, con la filosofia che lo conforma, racchiude significati e valori esistenziali capaci di nutrire uno stile di vita realizzante.

La comunità, infatti, non é solo un servizio di presidio sociale; possiede elementi quali il senso di appartenenza e quello di identità indispensabili sia all’equilibrio psichico della persona sia ad ulteriori “costruzioni” educative.

Nella nostra cultura, ripiegata sul relativismo e sul vuoto valoriale, riaffermare tali principi e tali realtà risulta fondamentale ai fini di quella ripresa che, di solito, accompagna la rinascita e lo sviluppo di nuove ere.

Le CC.TT. hanno dunque questa responsabilità verso la cultura da traslare nel nuovo secolo onde imprimere al cambiamento un’impronta esistenziale utile soprattutto alle nuove generazioni e alle fasce esposte al rischio del nulla di oggi.

Le politiche sociali del futuro possono trovare nelle Comunità una matrice più soddisfacente delle visioni ristrette dello stato sociale che non é più in grado, strutturalmente, di rispondere in modo adeguato ai bisogni.

Il messaggio transgenerazionale implicito che le CC.TT. trasmettono da un’ epoca all’altra, consta nel primato della persona e delle relazioni sociali; nel radicare identità e appartenenza in un terreno di consapevolezza che permetta di ricreare un sistema sociale di persone capaci di coesistere nel benessere sociale e personale. Né le strutture sanitarie, né quelle assistenziali di uno Stato potranno mai assicurare tutto questo anche se, a differenza del privato-sociale, hanno lobby economiche o politiche a difenderle. Dove impera la struttura terapeutico-assistenziale scompare la persona, assimilata a puro bisogno da sedare o a malessere da contenere per il bene di una società conformata dall’indifferenza e massificata dal consumo.

Una delle caratteristiche delle CC.TT., che da sempre ha espresso tali significati, é, appunto, quello dell’ accoglienza, dell’offrire un luogo per esplicitare i propri bisogni e per chiedere aiuto, in una prospettiva di auto-aiuto, di non giudizio e mai di puro assistenzialismo. Prospettiva che non va abbandonata, semmai, in linea con i mutamenti socioculturali, orientata ai nuovi bisogni e alle nuove tipologie di chi ne fa o potrebbe farne richiesta.

Le CC.TT., in prima istanza, devono rendersi più visibili e compartecipare i follow-up degli interventi e dei cambiamenti, per camminare a passo con l’epoca “dei dati in tempo reale” e dell’ informazione continua e massiccia.

Il cambiamento implica una prospettiva di globalizzazione della rete che include anche i servizi di frontiera poiché l’ ente pubblico, la comunità scientifica e l’uomo della strada, ognuno a suo modo, possiedono ancora una concezione molto empirica e riduttiva, se non magico-sacrale o punitiva, delle CC.TT., che misconosce prospettive, strumenti e verifiche insite nei progetti comunitari.

La capacità di concettualizzare e di teorizzare risulta ancora ridotta perché le CC.TT. faticano a riflettere teoricamente sulla prassi e a integrare la prassi nella teoria.

 

B          La valenza simbolica delle CC.TT. costituisce, inoltre, l’altra faccia della medaglia da considerarsi ai fini di una valutazione globale delle CC. TT. stesse. Essa fa si che la si possa equiparare ad un laboratorio microsociale ed esperienziale molto più composito e ricco di un setting o di un ambiente protetto. Essenzialmente consiste in un sistema che nutre di significati i propri componenti, attraverso il vivere quotidiano, nei suoi aspetti agiti e nelle trame emotivo-affettive, nel perseguimento del “benessere” psicofisico più che della cura del “malessere”.

“Si può quindi parlare, nella CT, più che in ogni altra esperienza di intervento, di azione interpretativa quale sostituto della tradizionale dimensione dell’ interpretazione psicoanalitica. L’azione interpretativa, peraltro, ha un valore trasformativo soltanto se si configura come azione simbolica. Se la valenza simbolica viene meno, se l’azione acquista un valore in sé, come è il caso delle organizzazioni produttive usuali, allora la CT può diventare un’istituzione totale, cioè una struttura posta al completo servizio di una fantasia collettiva agita funzionalmente e acriticamente, senza più differenziarsi dal carcere, dal convento, da un club aristocratico o da un caserma.

L’azione interpretativa, a sua volta, implica necessariamente che l’esperienza di adesione alla CT sia fondata sulla reversibilità. (…)  Nell’agire simbolico la verifica è una funzione che può e deve essere continuamente esercitata entro la comunità, al fine di sottrarla ai due rischi che sono sempre presenti e che comportano, se si realizzano, specifiche involuzioni funzionali: quello della fusionalità onnipotente, e quello della burocratizzazione normativa”7.

Tale valenza simbolica è ciò che, a mio parere, rende la CT riproponibile universalmente e che, nel contempo, permette di rispondere a bisogni differenti. Essa non è unico appannaggio della riabilitazione dei tossicodipendenti, né luogo di segregazione temporanea o cronica per persone con gravi disagi psicofisici. Essa può e deve proporsi come locus, ambiente, nel quale l’uomo cosiddetto normale può affrontare le “anormalità” intrinseche nello stile di vita che la società di oggi propone o impone.

Luogo dove declinare l’esistenza, per darsi senso e significato, attraverso un processo di cura non legato all’obiettivo della guarigione da qualcosa bensì, nell’accezione junghiana, di integrazione dell’ Io con contenuti inconsci portatori di senso. Laddove ostacoli e disturbi alla crescita della persona possono diventare occasioni di riflessione o di aggiustamento di forme improprie di adattamento.

La CT possiede potenzialità, onestà di intenti e strumentalità tali che, unitamente alle valenze educativa e simbolica, permettono all’individuo e al gruppo di prendersi cura di se stessi e degli altri, contro lo stress quotidiano e il non senso esistenziale, nella riproposizione di un’esperienza di coesistenza autentica, quale riferimento originario del vivere,  capace di riattivare l’identità e l’appartenenza del soggetto alienato.

La filosofia dell’Auto-Aiuto, con alcuni principi riferibili al concetto heideggeriano del fürsorgen, quale offerta all’altro di trovare e di prendersi cura di se stesso, in quanto plafond metodologico intrinseco alla CT, permette alla CT stessa di presentarsi come presidio volto all’accoglienza della persona che cerca senso e benessere, quindi quale ambiente quanto mai attuale  e necessario per il mondo di oggi.

Si tratta di non voler perpetuare un modello ma di interrogarsi in maniera costruttiva, focalizzando l’obiettivo fondante che originò la CT e il movimento delle CC. TT. e non gli obiettivi accessori-trattamentali, sullo sfondo di una società che genera malessere e interpella le nostre capacità di aiuto.

Penso sia questo il lavoro che risponde al prendersi cura.

Prof. Nicolò Pisanu


2 E. Hillesum, Lettere (1942-1944), Adelphi, Milano, 1990.

3 U. Nizzoli – M. Pisacroia, Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Vol. I, Ed. Piccin, Padova 2003, pag. 175.

4 ibidem, pag. 314.

5 ibidem, pag. 315.

6 Mi riferisco alla CT come intesa da Yablonsky (Cfr. Yablonsky, La Comunità terapeutica, Ed. Astrolabio, Roma, 1989).

7 C. Kaneklin e A. Orsenigo, Il Lavoro di comunità, Ed. NIS, Roma 1992, pagg. 76-77.

 

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