L’uccisione di Ugo Triolo. Una morte rimasta nell’oscurità.
L’avvocato Ugo Triolo, vice pretore ordinario di Prizzi, stava rientrando a casa la sera del 26 gennaio 1978, a Corleone. Una passeggiata a piedi, probabilmente i pensieri di una giornata di lavoro o, forse, orientati verso il calore di casa, per la mente, l’atteggiamento sereno di chi ha concluso, almeno per il momento, i propri impegni. Erano all’incirca le 17:40 quando Ugo Triolo arrivò sotto il portone, suonando il citofono.
La voce dei suoi assassini e il rumore dei colpi sparati contro di lui furono gli ultimi suoni che poté sentire. Nove colpi di P38, di cui sette lo raggiunsero tra testa e torace, mentre due andarono falliti. Non ebbe tempo di reagire, forse solo il tempo di capire o di collegare la presenza dei due killers alla sua vita, forse alla sua attività di pretore, al suo rifiuto di vendere un terreno. Un forse obbligatorio perché a distanza di anni la morte di Ugo Triolo è ancora legata ad ipotesi, tutte basate, inizialmente, solo sulla confessione del pentito Di Cristina, che qualche mese dopo l’uccisione crudele dell’avvocato Triolo si decise, durante un interrogatorio, a raccontarne i retroscena, legandoli ai corleonesi Totò Riina (vicino la cui casa si trovava l’abitazione di Triolo) e Bernardo Provenzano, alle vicende degli interessi imprenditoriali della mafia sulla diga Garcia nella Valle del Belice.
Riina e Provenzano sarebbero stati i mandanti di un gruppo di fuoco di cui, da altri due collaboratori di giustizia, Brusca e Di Carlo, furono indicati come esecutori Leoluca Bagarella, Antonino Marchese e Vallone, spietati killers di Cosa Nostra.
Tra le ragioni poste alla base dell’omicidio gli interessi, economici di Cosa Nostra che aveva la pretesa di gestire e indirizzare gli appalti delle opere che si stavano realizzando nei territori della valle del Belice. Un’ipotesi che potrebbe anche apparire plausibile visto che, sicuramente, le mafie mal sopportano chi si pone tra loro e i facili guadagni, arrivando spesso a far fuori chi incontrano sulla loro strada. “I picciuli cuntanu cchiù assai” perché i soldi contano molto più di una vita, per molti, troppi uomini.
Le indicazioni arrivate dai collaboratori Di Cristina, Brusca e Di Carlo non sono, però, state mai ritenute sufficienti ad appurare le motivazioni che ne hanno determinato la fine. Un omicidio senza soluzione, un uomo ucciso senza che se ne siano potute pienamente comprendere le dinamiche, un delitto di mafia ancora nel buio. Ipotesi tante, forse neanche in contrasto tra di loro, ma in fondo la verità è rimasta sepolta e mai indicata con chiarezza.
di Patrizia Vindigni