La verità alla dogana dell’irreale

La massima Natura non facit saltus, la natura non procede per salti, è ripresa nel 1700 dal filosofo matematico tedesco Leibniz e poi dal medico, botanico, naturalista svedese Carl von Linnè nel 1751. Sulla soglia d’ingresso a questo nostro nuovo millennio, sembra fare propria quella locuzione in latino un altro svedese.  Si tratta dello scrittore John Ajvide Lindqvist, ex prestigiatore, cabarettista, battutista per molti comici del suo paese. Nel 2004 scrive un romanzo che già nel titolo contiene non un riferimento al salto, ma all’oltrepassamento di una soglia, di una linea di confine. Quel romanzo è Lasciami entrare, ottiene immediatamente un grande successo, è tradotto in una dozzina di lingue e trasporto nel 2008 in un film di grande qualità dall’omonimo titolo. Non il salto, ma la soglia appunto è quella che passa dentro il corpo e la mente di un’adolescente che è insieme bambina e vampiro.  Regista di quel film è Tomas Alfredson.

Arriva ora sullo schermo non un romanzo ma un racconto di Lindqvist dal titolo originale Gräns, Limite, Confine. Produzione danese-svedese, regia affidata all’iraniano-danese Ali Abbasi, esce in Italia con settantasette copie e il titolo di Border, Creature di confine. Lindqvist è stato definito lo Stephen King scandinavo. Lo scrittore statunitense, infatti, scrive nel 1977 un romanzo horror dal titolo Le notti di Salem. Il genere horror è però usato da King per mettere a nudo aspetti sociali critici della contemporaneità. La stessa cosa avviene in Lasciami entrare, sia romanzo, sia film, in cui dallo sfondo horror-paranormale emergono di soglia in soglia bullismo, tossicodipendenza, pedofilia, prostituzione, assassinio.

Non è invece di genere cinematografico direttamente horror o fantasy lo sfondo di Border. È invece uno sfondo-soglia, che pervade ogni aspetto della vicenda. Una soglia tra umano e non umano, tra genere sessuale maschile e femminile, tra amore e inganno, tra memoria e menzogna, tra giustizia universale e orripilante vendetta. Tra realtà e irrealtà. Un “tra” in cui l’irrealtà scaturisce con la forza di una realtà che non eravamo in grado di vedere. Un “tra”, un interstizio liminare che passa dentro il corpo, la mente, i ricordi, i sensi, la sessualità della protagonista. E anche dentro il suo lavoro: guardia di frontiera. Dentro la sua casa: al bordo tra città e foresta, tra incanto e rabbia animale. Sul posto di frontiera, di dogana marittima in cui presta servizio di polizia, Tina annusa, odora chi nasconde qualcosa di illecito nel bagaglio o nei vestiti. Coglie per una via olfattiva particolarmente accentuate le emozioni umane. Una qualità precipuamente animale. Questa la conduce a mettere il naso, ossia la sua soglia olfattivo-intellettiva in un affare illegale piuttosto scottante, inquietante, da cui si dirama una prima sotto trama del film.

Su quella stessa linea di confine doganale, Tina annusa e blocca uno strano passeggero, Vore. Non riesce però a individuare le sue emozioni e ciò che occulta. Sembra la stessa immagine umana di Tina ma al maschile. Umana? Al maschile? Fatto sta che Tina lo rincontra ancora sulla e oltre la linea di quella frontiera non solo doganale. Questo incontro viene così a costituire la trama principale di tutta la vicenda.

Tina è interpretata dall’attrice svedese Eva Melander, Vore dal finlandese Eero Milonoff. Il regista Abbasi ha messo al lavoro una squadra di due truccatori e tre truccatrici. Tra queste, Cristina Malillos, addetta al solo truccoprostetico, ossia con protesi, applicato sulla faccia della Melander. Un trucco che deve rendere anch’esso la logica implacabile e l’evidenza epidermica del limite, del confine. Del “tra” biologico-esistenziale in cui Tina è incastrata. Incastro che Vore manda letteralmente in pezzi, con conseguenze che retroagiscono drammaticamente su tutta la precedente vita della guardia di frontiera impegnata in uno scottante caso di polizia. Sul padre che ha serrato dentro la sua semi-demenza senile anche la memoria della nascita di Tina. Sul suo fidanzato che alleva doberman sempre pronti ad azzannarla, come lui è interessato solo a sfruttarla. Su quella stessa inquietante indagine di polizia. “Sei tu che parli come un umano”, Tina sbatte in faccia a Vore al culmine spasmodico del loro thriller.

Ci domandiamo se la natura – considerata in tutto l’insieme che la costituisce – abbia una coscienza, una percezione consapevole di sé stessa. Se riesca, cioè, a portarsi come fuori di tutta sé stessa per avere una visione, una percezione che la trascenda. E siamo portati a rispondere che tale forma diappercezione trascendentale, di coscienza, consapevolezza intellettiva possa risiedere soltanto nell’umano. Questo film ci mostra invece l’esistenza di un’altra soglia di percezione e giustizia della natura. Irreale, fantastica ma che non facit saltus, neanche nel suo abissale squarcio di verità.

di Riccardo Tavani

 

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