L’abbandono del popolo Curdo e la conseguente invasione e fuga.
Il voltafaccia di Trump, l’abbandono dei Curdi alla prepotenza turca, resterà una delle pagine più ingloriose, e disastrose, di questa Amministrazione.
Il tradimento del principale alleato americano nella lunga battaglia contro Daesh è stata tanto repentina, vigliacca e strategicamente folle, da essere contestata perfino da alti esponenti repubblicani. Ma, d’altronde, questi sono i rischi che corrono i paesi governati dalle forze populiste.
La dichiarazione della Casa Bianca che annunciava il ritiro delle forze statunitensi dal nord della Siria era, nella “strategia” trumpiana, rivolta principalmente alla pubblica opinione interna. Le cose, però, marciano più veloci delle limitate “idee” presidenziali.
Con l’improvvida dichiarazione di Washington è saltato l’unico freno all’invasione turca del nord della Siria. Ankara è da sempre ostile a qualsiasi forma di autodeterminazione curda nel Rojava. Fino al tradimento, il ruolo delle forze statunitensi è stato, sostanzialmente, quello di dissuadere la Turchia dall’attaccare i Curdi, impegnati in prima linea contro le forze dell’Isis. Non appena le truppe americane hanno abbandonato le postazioni di Ras al Ayn e Tal Abyad, Recep Tayyip Erdogan ha dato inizio all’ “Operazione fonte di pace”.
Sul terreno, l’invasione del Rojava, e la sua possibile disgregazione, ha già prodotto migliaia di nuovi profughi e centinaia di morti, anche civili.
Le operazioni militari danno nuova forza alle milizie filo-turche islamiste e rischiano di trasformare il Rojava in un territorio in mano ai jihadisti dell’Isis, di Al Qaida e agli altri gruppi estremisti in qualche modo alleati con la Turchia.
A livello strategico la situazione sul terreno sta, oggettivamente, creando le condizioni per un riavvicinamento tra le forze democratiche siriane a guida curda e il regime di Damasco.
Dallo scoppio della guerra nel 2011 i Curdi, marginalizzati per decenni dal regime di Assad, hanno creato una regione autonoma su circa il 30% del territorio nazionale siriano. Il partito dei lavoratori del Kurdistan puntava sull’alleanza con gli Stati Uniti, cementata dalla lotta anti-jihadista, per rafforzare il suo disegno politico.
Damasco, che dopo le vittorie contro i ribelli e gli jihadisti ottenute grazie al sostegno russo e iraniano, controlla circa il 60% del paese, ha ora l’occasione per mettere le mani sulle aree, ricche di risorse, della Siria orientale ancora sotto il controllo curdo.
Con i Curdi costretti tra l’incudine e il martello, Assad può ottenere la consegna delle armi e lo scioglimento delle milizie all’interno dell’esercito siriano. Condizioni che, se accettate, segnerebbero la fine di ogni idea di autonomia ma che oggi appaiono preferibili a un Rojava jihadista.
A livello geostrategico, quindi, il voltafaccia americano rappresenta un assist per il regime siriano, la Russia e l’Iran, ma anche per l’Isis. Sulla carta tutti nemici dell’America.
Mentre i Curdi, gli alleati, saranno costretti ad un accordo che consente al presidente Bashar Assad di riaffermare il suo controllo sull’est del Paese.
Certo un gran bel risultato quello raggiunto da Trump e dalla sua “grande e ineguagliabile saggezza”.
Come al solito manca un attore in questo scenario. Anche stavolta, immancabilmente, il vecchio Continente è una semplice comparsa. L’Europa balbettante, da un lato minaccia Ankara evocando la sospensione della vendita di armi (misura peraltro inutile per chi ha gli arsenali ormai pieni) mentre, contemporaneamente promette altri soldi al regime turco perché mantenga chiusa la rotta balcanica dei profughi. In pratica accettando la presa del Rojava, come area dove respingere i tre milioni di profughi siriani finora rifugiati in Turchia.
Un altro porto sicuro.
di Enrico Ceci