Renato Filippelli: …ed ebbi un grido nell’anima materna

“…ed ebbi un grido nell’anima materna…” un verso che mi ha scolpito come “Il tuo volto morente” lasciando un segno profondo, una lacerazione che non potrà rimarginarsi se non con altri versi di Renato Filippelli. Un poeta, ma ancor di più un letterato, uno studioso, un ricercatore delle parole che vibrano e intagliano come pochi altri hanno saputo fare. Non lo conoscevo. La poesia di Renato Filippelli è apparsa all’improvviso, con un verso de “Il volto scolpito” una delle poesia della sua opera dal titolo “Plenilunio nella palude”. Dove ho incontrato quel verso, sinceramente non lo ricordo, ma ricordo la fatica per trovare l’autore. Ricordo di aver letto solo quel verso, forse come citazione in un articolo che non riportava la fonte e l’autore. Ho cercato tanto. Alla fine scopro Renato Filippelli, un intellettuale a tutto tondo, con la capacità di scrivere poesia con la P maiuscola. Un sapiente con la conoscenza della letteratura fin negli angoli più reconditi della memoria.

Leggendo la sua opera, la sua vita mi accorgo che il mio pensiero diverge dalla critica ufficiale. Una divergenza profonda che mi mette soggezione nel cercare di esprimerla per iscritto, correndo il rischio di toccare le suscettibilità dei grandi critici che hanno interpretato Renato Filippelli. Ma come insegnava Harold Bloom nel suo “Canone occidentale” ogni interpretazione è un fraintendimento, è pertanto contestabile. Ogni lettore coglie aspetti sempre diversi, espliciti e inespliciti, minerali preziosi di un magma in cui si celano preziosi residui, spesso non cristallini ma non meno presenti. Riflettendo su questo assunto, umilmente mi permetto di collocare, la poesia di Renato Filippelli,  fuori dalla tradizione novecentesca, per inserirla, non arbitrariamente, nel solco della poesia che attualizza il nuovo millennio, criticandone l’effimero, per ricontestualizzarne i valori etico-morali che attingono alla tradizione, legati alla Terra Aurunca. Una Terra dove tutto nasce e tutto muore, in un circolo, non vizioso, ma portatore di energie sempre nuove ma che hanno nel loro DNA lo stesso odore, variabile con il variare delle stagioni e degli umori-amori.

La poesia vera, è sempre “religio” anche quando è laica o gnostica. Proprio allora diviene poesia non superstiziosa in quanto l’incarnazione può essere, per gli atei, priva di resurrezione, ma non priva della verità che i Vangeli hanno tramandato.

Da qui la grande intuizione di Renato Filippelli, poeta fattosi uomo, non uomo fattosi poeta, cioè che il bisogno-necessità di incontrare il Cristo redentore, o il Cristo uomo, ci permette di vivere l’emozione più grande come quella della nascita o della morte, della gioia o del dolore, senza il timore di essere condannati alla oscurità eterna. La gioia dell’incontro, in Renato Filippelli si ripete in ogni verso, allontanandoci dal cattolicesimo gotico, sofferente, sanguinolento e dannoso, per avvicinarci, prendendoci per mano, alla cristianità della gioia dei mattini, del sole che sorge, della terra arata e del mare che si infrange. Sogni di sogni, emozioni di emozioni, catturate da parole sapientemente distillate per donarci una visione gioiosa di una pratica “religio” che ci accomuna con tutti i figli della Terra Aurunca, in quando Terra della umanità intera. In questa chiave di lettura, la modernità di Renato Filippelli ci introduce in un mondo nuovo dove la “sorellanza” richiamata da Papa Francesco è la “sorellanza” divina di una umanità che cerca e trova se stessa perché ha trovato se stesso. Ne “Il volto scolpito” scrive nell’ultimo verso: ed ebbi un grido nell’anima materna: Figlio mio!”

Un grido nell’anima materna, una visione che dopo  trenta anni ha avuto Papa Francesco nel dire Dio è madre, nel rimarcare la profondità di un sentirsi madre per essere poi figlio. Qui la riflessione sulla poesia di Renato Filippelli, che non può essere rilegata a poesia della tradizione, o d’annunziana. È troppo poco. Non si può ridurre ai minimi termini un concetto poetico visionario che è ben oltre ciò che fino ad oggi abbiamo immaginato. È vero, che oggi possiamo “rileggere” la poesia con l’ausilio delle encicliche che prima non c’erano, e  altresì possiamo interpretare e comprendere il messaggio di Renato Filippelli con le visioni catecumenali, cattoliche e soprattutto cristiane, che abbattono ogni barriera filologica, ma anche etica e morale per rilanciare un messaggio unico e universale. Abbattere le barriere per abbattere i pregiudizi, per chiamarci ad essere ciò che non siamo mai stati ma che potremo essere, quanta forza c’è nei versi di Renato Filippelli quando scrive “Donne sul Massico”, quando ci invita a guardare le mani delle donne come le mani di Dio, lasciando intravedere un assioma che la Chiesa aveva sempre negato, fino ad ora, a quando un Papa venuto da lontano, come il figlio di Dio, ci dice con tutta la sua passione Dio è madre, è donna, Dio è umanità che soffre ma deve gioire anche di questa sofferenza. “Le mani delle donne aprono stimmate/ sui ventagli di strame a monte Massico/ Arte paziente fa duttile il nerbo/ tagliente, trame sporte/ pei mercati dei poveri. La soglia/ della mia casa si consunse al battito/ del mazzuolo di rovere. O Signore, o Signore/ nel giorno della resurrezione della carne,/ guarda le mani delle donne nostre”.

Guarda le mani delle donne nostre, quanto amore in parole così semplici, così delicate, quanta umiltà, eppure in questa genuflessione al Signore c’è il riconoscimento degli errori di millenni, di maltrattamenti e violenze alle donne, c’è il riconoscimento di quanto è stato fino ad ora negato: guarda le mani delle nostre donne, dove c’è il dolore, la povertà vissuta con dignità nella sofferenza, ma c’è il riscatto, la passione di un amore sconfinato, nel riconoscere nelle donne la vera gioia del creato e della poesia.

di Claudio Caldarelli

 

 

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