Cine-pillole di riapertura

Hanno ormai riaperto quasi tutte le sale cinematografiche, questi appena una mezza dozzina di titoli tra i molti in programmazione.

Un altro giro. Drammaticamente spassoso. Il pretesto narrativo è preso da una teoria dichiaratamente spassosa dello psichiatra Finn Skåderud: saremmo tutti nati e drammaticamente vivremmo con un deficit dello 0,5% del tasso alcolico necessario a vivere bene. Un gruppetto di frustrati insegnanti di scuola prova a recuperare questo mancante 0,5%, facendosi qualche cicchetto prima di entrare in classe. Le cose cambiano immediatamente in meglio: per loro e per ragazze e ragazzi che prima a stento li sopportavano. Subito dopo, però, cominciano a peggiorare. I prof, infatti, raddoppiano presto e anche triplicano, quadruplico quel mezzo punto deficitario. Riusciranno a trovare i nostri eroi a trovare il grado alcolico giusto tra libertà e responsabilità. E, inoltre: cos’è davvero la realtà se per entrare in un’altra sua oscillazione, basta spostare di appena mezzo grado alcolico l’angolo di osservazione e conseguente azione? Di grande valore e impatto la scena finale. Strepitoso l’attore protagonista Mads Mikkelsen. Il regista danese Thomas Vinteberg dedica l’opera alla figlia Ilda, che aveva aiutato il padre a mettere a punto l’idea ed è scomparsa tragicamente in Africa alcuni giorni prima delle riprese. Vincitore dell’Oscar 2021 quali Miglior Film in Lingua Straniera

The human voice. Raffinato remake in stile Almodovar. Tratto dall’omonima breve pièce teatrale di Jean Cocteau, ripresa poi da moltissimi autori, attori e musicisti. Roberto Rossellini con Anna Magnani nel 1948; il compositore d’opera Francis Poulenc nel 1959; la pop-star Madonna nel videoclip di I want you; Sophia Loren nel 2014 con la regia di suo figlio Edoardo Ponti e una riscrittura in napoletano di Erri De Luca. Lungo monologo di una donna al telefono con l’amante che l’ha abbandonata. Almodovar mette in campo Tilda Swinton, una delle tante attrici feticcio da lui abbandonate. Il set è quella di un teatro di posa adattato a elegante interno abitativo, così che tutto si confonde tra realtà e finzione. Durata: mezzora secca. Biglietto d’ingresso: dimezzato.

Minari. Occasione non completamente realizzata ma neanche del tutto mancata. Anni ’80. Famiglia sudcoreana in Arkansas: padre, madre e piccolo figlio sofferente di soffio al cuore. Il marito insegue il sogno americano del successo, scommettendo sulla coltivazione di prodotti tipici del suo paese da vendere ai numerosi connazionali espatriati in Usa. La moglie fa arrivare la madre per averla vicina e per farsi dare una mano. La nonna, però, non è simpatica al nipote e combina solo guai. Film d’impianto classico americano per una storia che per personaggi e vicenda aspira a essere diversa.  Brad Pitt, qui solo in veste di produttore esecutivo, non ha però resistito a rafforzare la storia con la scelta di una tipica scena da forzatura drammatica. Il prefinale, infatti, è strappacuore, da Via col vento, in sedicesimo, però. Il titolo, Minari, è il nome di un’erba apprezzata come alimento in Corea e che la nonna scopre crescere spontanea sulla sponda di un ruscello vicino casa. Vincitore dell’Oscar 2021 a Yoon Yeo-jeong nel ruolo della nonna Soon-ja, quale Migliore Attrice Non Protagonista.

Rifkin’s Festival. Collaudata commedia stile Allen. Una coppia yankee in crisi va all’annuale festival cinematografico di San Sebastian, Paesi Baschi, Spagna. Mort Rifkin è un ex prof di storia del cinema in pensione che sogna di scrivere un romanzo di alto profilo letterario. La moglie Sue è un’addetta stampa che sta promovendo al Festival il film di un giovane, promettente regista che piuttosto sfacciatamente – anche davanti al marito – la corteggia. Rifkin conosce una dottoressa che lo folgora alla prima visita cardiologica. Questi gli espedienti per tessere una variazione di quelle vicende, equivoci e battute che ormai Woody Allen intesse con sciolta maestria nel suo telaio cine-narrativo. Il film, però, è anche un omaggio esplicito – anche polemicamente contro quello americano – al grande cinema europeo, con citazioni e ricostruzioni di sue scene memorabili che hanno fatto la storia del cinema mondiale. Gina Gershon, Wallace Shawn, Elena Anaya e Luis Garrel, sono i quattro interpreti  agli angoli critici del quadrilatero d’amore che il regista riesce a intonare perfettamente alla godibile briosità del suo racconto.

The Father. Nulla è come sembra. Drammaticamente illuminante. Tratto da una pièce teatrale dello stesso regista francese Florian Zeller. Anne si trova alle prese con suo padre Antony, che ha da poco ma irreversibilmente varcato la soglia della sua demenza senile. Non vuole, però, saperne proprio niente di badanti tra i piedi. Il film ha il pregio di mostrarci esattamente come una persona con questa sindrome vede le cose in torno a lui, come dentro di sé rimonta il film di ciò che chiamiamo realtà. Per chi ha avuto a che fare con un genitore in questa situazione sarà una visione fulmineamente illuminante. Rivedrà molte scene reali di quel rapporto sotto una significativa nuova luce. Grazie alla mostruosa bravura attoriale di Antony Hopkins, tocchiamo con mano quanto basti poco – appena un minimo scostamento di prospettiva – per vedere in maniera completamente diversa la realtà. Di qui l’importanza per niente trascurabile del sottotitolo, quale significato esistenziale più ampio, che travalica la specifica vicenda narrata. Oscar 2021 a Antony Hopkins, quale Migliore Attore Protagonista.  Oscar 2021 per la Migliore Sceneggiatura Non Originale.

Il Cattivo Poeta. Ci riguarda ancora. Gabriele D’Annunzio, chiamato il Vate, è considerato il maggiore esponente del decadentismo letterario italiano. E il film è esattamente sugli ultimi due anni del suo crepuscolo, della sua decadenza vitale. L’eroe dell’impresa di Fiume, formalmente e lucrosamente adulato dal regime fascista, è in realtà isolato e messo sotto stretta sorveglianza. Vive serrato nella sua villa mausoleo del Vittoriale, sul Lago di Garda. Qui è ambientata e girata gran parte della vicenda ricostruita sulla scorta di frasi realmente pronunciate o scritte dal poeta. Storia meritoriamente ricostruita, anche con appezzabile qualità cinematografica dal regista Gianluca Jodice, al suo primo lungometraggio. Vate: ossia che sa vedere lontano, vaticinare, proprio in quanto poeta, veggente. E d’altronde persino il suo nome e cognome metaforicamente lo indicano. “Tu sarai testimone della mia veggenza”, dice Gabriele D’Annunzio a Comini, il giovane federale di Brescia. La sua netta contrapposizione alla scelta dell’alleanza tra Mussolini e Hitler è metafora di uno scontro sempre attuale tra l’ampiezza del pensiero, la sensibilità poetica e il volgare marionettismo della parola politica che in sé è già “il tradimento degli ideali, della passione autentica”. Pregevole prova attoriale di Sergio Castellito nei crepuscolari panni del Vate.

di Riccardo Tavani