Leader dalle parole vuote
Non appena la macabra giostra mediorientale ha rallentato il suo giro della morte, come se le parole pesassero più delle vittime e della distruzione, è ripartito il chiacchiericcio internazionale sul “processo di pace”.
Parole vuote che tutti, a partire dai palestinesi e dagli israeliani, accolgono con scoramento perché nulla, se non la preparazione di un nuovo conflitto, potrà accadere finché i fomentatori di odio, resi forti di questo sentimento, guideranno i loro popoli.
Piccoli leader che rifiutano – per ideologia, motivi religiosi e, soprattutto, per preservare il loro potere – di percorrere la strada che porta alla nascita dello Stato di Palestina e a veri accordi di pace tra Israele e paesi arabi. Forse l’unica opportunità per esaudire il desiderio di una quotidianità vissuta fuori dal campo di battaglia di una guerra pluridecennale.
Le centinaia di donne, uomini e bambini morti sotto i bombardamenti di Gaza, i dodici cittadini israeliani uccisi dai razzi lanciati da Hamas, la distruzione e le migliaia di sfollati sono il prezzo pagato dai popoli alla conservazione dei presunti nemici.
Netanyahu, consapevole della forza acquisita dai gruppi dell’estrema destra israeliana e dei coloni che sostengono la pulizia etnica, nei suoi anni di governo ha tentato di prosciugare il loro consenso nuotando nella stessa acqua e facendo progressivamente slittare la politica di governo, e il discorso pubblico, verso la realizzazione di uno stato etnico, per i soli cittadini di origine ebraica. Nel momento in cui sembrava profilarsi la possibilità di un nuovo governo che lo escludeva, che prevedeva la partecipazione di almeno un partito arabo-israeliano, che poteva privarlo dell’immunità giudiziaria e portarlo in galera per corruzione, ha puntato sugli sfratti di Sheikh Jarrah, sugli scontri alla spianata delle moschee, sui razzi partiti da Gaza e sulla risposta militare israeliana.
Ha giocato le sue carte evocando lo stato di urgenza, riaffermando l’esistenza del nemico terrorista e la politica di insediamento nei territori occupati.
Il “nemico terrorista”, da parte sua, aiutato dalla politica di occupazione israeliana, ha avuto modo di ribadire il suo ruolo di difensore della fede e la sua volontà, velleitaria ma motivante, di distruggere lo stato di Israele. Uno degli stati più armati al mondo e sostenuto fino allo stremo dagli Usa.
Di più, aiutato dal silenziamento della “questione palestinese” dall’azione diplomatica e dall’informazione internazionale, Hamas è riuscito nell’impresa di farsi identificare con l’intero popolo palestinese mettendo fuori gioco chi, tra i palestinesi, si batte per un futuro di pace.
Sovrapporre palestinesi e Hamas, significa oscurare le vere ragioni del conflitto e ridurre la questione israelo-palestinese all’attacco di un gruppo terrorista contro uno stato democratico.
Ovvio che finché i due popoli non riusciranno a liberarsi dei rispettivi oltranzisti, di questi nemici-amici che si sostengono a vicenda, la strada della pace resterà sbarrata.
di Enrico Ceci