SCUOLA, PANDEMIA E FUTURO
In questi difficili anni di pandemia stiamo perdendo la grande occasione di non riuscire a sfruttare il momento di assoluta incertezza che stiamo vivendo per ripensare in modo critico la grammatica del nostro vivere quotidiano ed intervenire finalmente in modo concreto sul pilastro principale su cui si fonda la nostra società: la scuola.
L’unico dibattito che si è acceso tra gli addetti ai lavori riguardo alla scuola ci ha condotto in un labirinto senza via di uscita, dove il Minotauro, dalle sembianze di un microrganismo invisibile senza corna e pelo folto, lungi dall’essere sconfitto, è stato narrato come l’unico problema da affrontare per riportare la scuola ad un normale livello di funzionamento.
Al solito, in ogni ragionamento attorno al tema della scuola ci si è concentrati sempre e solo sul “COME” fare scuola (alfabetizzazione digitale, ricerca multidimensionale, percorsi per le competenze trasversali e orientamento, didattica a distanza, didattica integrata, sistemi di valutazione, prove scritte o orali) e mai sul “COSA” dovrebbe essere o diventare la scuola in una società come quella odierna.
Da educatore ritengo che la scuola debba essere in primo luogo un “laboratorio del futuro”, inteso non soltanto in termini professionalizzanti o lavorativi, ma progettato allo scopo di garantire ai nostri studenti una formazione “umana” ed “umanizzante” attraverso un logos interdisciplinare che si fondi su insegnamenti educativi (civici, etici, filosofici e spirituali) in grado di trasformare i giovani in uomini e donne migliori, in futuri cittadini del mondo capaci di modificare e ripensare l’architettura pericolante che sorregge la nostra moderna società globalizzata e globalizzante.
Se attingiamo al significato etimologico della parola scuola [1] (Lat. Schola > Greco Scholé, “ozio”, “tempo libero”), ci appare evidente che scuola, per i greci, significava essenzialmente l’ozio di occupare piacevolmente attraverso lo studio il proprio tempo libero. Solo successivamente questa dimensione astratta ed immateriale diventerà “un luogo fisico” dove lo studio si potrà concretizzare sotto la guida di un maestro o di un insegnante.
Anche il concetto di ozio è profondamente cambiato nel corso dei secoli e, se oggi questa parola viene utilizzata in modo per lo più spregiativo ad indicare nelle persone comportamenti poco virtuosi contraddistinti da passività ed inattività, sappiamo che, in epoca romana, i più grandi intellettuali, da Seneca a Cicerone, attribuivano a questa parola un significato molto nobile. L’otium per Seneca rappresentava forse il momento più alto della vita di un uomo, durante il quale per libera scelta ci si poteva ritirare dalla vita pubblica (negotium) e dedicarsi, esclusivamente attraverso lo studio, a se stessi per migliorarsi e migliorare gli altri [2].
Appare evidente come queste due parole dense di significato, “ozio” e “piacere”, siano state nel tempo sottratte alla dimensione della scuola e sostituite con altre parole, come “impegno” e “sacrificio”, in una cornice propriamente moderna che assegna all’istituzione scolastica il ruolo di certificare competenze da raggiungere attraverso lo studio. Impegno e sacrificio, pur essendo parole assai nobili, risultano poco funzionali e certamente non sufficienti ad essere interiorizzate a livello di psiche collettiva dai nostri studenti che faticano (e i dati sulla dispersione scolastica implicita ed esplicita sono lì a testimoniarlo) a trovare le giuste motivazioni per applicarsi con passione alla pratica dello studio [3].
Dovremo dunque interrogarci, come educatori, su come riaccendere l’amore per lo studio all’interno delle aule scolastiche e su quale sia il possibile punto dal quale ripartire per riattivare una motivazione che appare scontata, ma scontata non è. Il punto principale da prendere in esame riguarda indubbiamente la formazione degli insegnanti e la necessità di aggiungere al loro sapere disciplinare delle solide competenze in materia pedagogica, educativa, comunicativa, indispensabili per cambiare l’orizzonte di navigazione.
Insegnare (dal latino in-signare) significa incidere, imprimere dei segni, ma questi segni potranno essere visibili soltanto attraverso una maggiore attenzione nella cura della relazione che si instaura con gli studenti, facendo in modo di apparire ai loro occhi, prima che come un professore, come un adulto significativo, che possa fungere da riferimento culturale – educativo sulla base di un’esperienza emozionale condivisa che completi quella cognitiva e che sia in grado di accogliere le istanze degli studenti attraverso un dialogo costruttivo funzionale all’apprendimento.
Si tratta in sostanza di ricalibrare i tempi dell’insegnamento, al fine di far coincidere i tempi della didattica con i tempi della relazione, creando un equilibrio tra le due forze in campo che risultano, a mio avviso, essere decisamente sbilanciate. Aumentare i tempi dell’ascolto, della domanda, della comprensione e della critica e diminuire quelli dell’ansia, della prestazione, della valutazione e dell’attenzione forzata, che rischiano di trasformare la scuola in un campo di addestramento limitando il piacere della scoperta, che solo nel significato del percorso può generare linfa vitale per un reale apprendimento educativo.
Come sostiene Massimo Recalcati, si tratta di riuscire a trasformare l’oggetto del sapere in un oggetto erotico e desiderato attraverso una connessione e una relazione profonda tra corpi (il corpo del libro, il corpo dell’insegnante e il corpo dello studente) [4] Nella scuola di oggi nulla appare più vero delle parole pronunciate da Rousseau più di duecento anni fa quando diceva che “per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino” [5]. Se è vero, come sosteneva Sant’Agostino, che “nutre la mente solo ciò che la rallegra” [6], allora nella scuola si deve tornare con forza a respirare, sentire e praticare insegnamenti educativi in grado di catturare e risvegliare la dimensione emozionale e motivazionale dello studente ancor prima di quella cognitiva, facendolo sentire protagonista del suo percorso di formazione e di crescita.
Un’educazione che sia dialogica e problematizzante, sul modello pensato e scritto dal grande pedagogista brasiliano Paulo Freire [7] che mira alla costruzione di un significato comune e collettivo dal quale attingere per edificare il futuro.
Un’educazione predisposta ad insegnare la condizione umana, la solidarietà e l’identità terrestre per allenare la mente ad aspettarsi e a sapersi comportare di fronte all’inatteso come sostiene Edgar Morin [8].
Un’educazione che non mira a formare “teste ben piene” ma “teste ben fatte” [9] e che non si propone di scomporre le discipline in una logica iper specialistica tendente a ridurre il complesso in semplice perché il complesso è la natura stessa di questo mondo sempre più interconnesso come interconnessi sono i saperi e le leggi che lo spiegano e lo governano.
Un’educazione critica e liberatoria in grado di “sottrarre pecore al gregge, servi ai padroni e schiavi ai tiranni”, come era solito introdurre in ogni sua lezione universitaria il mio caro vecchio maestro di Pedagogia Generale Prof. Giulio Sforza [10].
Un’educazione che sappia trasformare gli impulsi naturali ed egoistici che ci contraddistinguono dalla nascita in sentimenti assertivi, rispettosi del prossimo e in grado di guidare i nostri comportamenti e le nostre scelte future, come ci ricorda Umberto Galimberti [11].
In conclusione, un’educazione che non si limiti ad istruire e a dispensare sapere, perché solo questo non basta, se ci si dimentica del fine ultimo di ogni insegnamento, che è quello di renderci tutti più umani. Un’educazione che trovi il suo compimento nelle parole riportate da Annieck Gojean pronunciate da un preside di liceo americano in una lettera ai suoi insegnanti:
“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università. Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani” [12].
di Alberto Giovannini
BIBLIOGRAFIA
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Etimo italiano- https://www.etimoitaliano.it/2014/11/scuola.html .
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Seneca L. A., “De Otio”, Paideia, Torino, 2007.
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La dispersione scolastica non è solo sui banchi vuoti – https://www.invalsiopen.it/dispersione-scolastica-implicita/ .
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Recalcati M., “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”,Einaudi, Torino, 2014.
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Rousseau J. J., “Emilio”, Editore Laterza, Bari, 2006.
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Fandella P., Pizzolato L. F., “Nutre la mente solo ciò che la rallegra. Le Confessioni di Sant’Agostino”, Vita e Pensiero, Milano, 200.
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Freire P., “La pedagogia degli oppressi”, Arnoldo Mondadori Editore, Cles,Trento, 1976.
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Morin E., “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
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Morin E., “La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.
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Il Professor Giulio Sforza è Docente Emerito presso l’Istituto Universitario di Scienze psicopedagogiche e sociali “Progetto Uomo”, aggregato alla Facoltà di Scienze dell’educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, è stato Docente presso l’Università Sapienza e Roma 3. Ha insegnato discipline pedagogiche con particolare attenzione al versante della Filosofia dell’Educazione, dell’Educazione estetica in generale e di quella musicale in particolare.
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Galimberti U., “L’educazione sentimentale”, Filosofarti 2018, https://www.youtube.com/watch?v=wC_GUHl3vvk .
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Cojean A., “Les mémoires de la Shoah”, in Le Monde del 29 aprile 1995, https://www.metadidattica.com/2015/01/31/lettera-di-un-dirigente-scolastico-ai-suoi-insegnanti/ .