Sport e politica

La scorsa domenica, mentre si svolgevano le votazioni per i referendum, ho trascorso il pomeriggio davanti al televisore assistendo alla finale del torneo del Roland Garros, disputata tra i due migliori tennisti del mondo, Yannik Sinner e Carlos Alcaraz. È stato un incontro altamente spettacolare, addirittura epico, conclusosi al tie-break del quinto set, dopo cinque ore e mezza di lotta, con la vittoria del campione spagnolo.

Oltre che dalla bravura, veramente straordinaria, dei due contendenti, sono stato colpito dal fatto che in più di un’occasione Alcaraz, ritenendo errata la decisione dei giudici di linea a suo favore, ha concesso il punto all’avversario. Il gesto è stato in seguito ricambiato da Sinner in una circostanza analoga. Questo comportamento, ammirevole per il rispetto delle regole e dell’avversario, viene comunemente definito con la locuzione inglese fair play, presa dalla lingua di un popolo che ha – si potrebbe dire – inventato lo sport moderno (non per nulla, anche la parola “sport” è entrata a far parte del nostro vocabolario, nel quale manca un termine che possa tradurla in modo adeguato).

Per inciso, noto che la lealtà agonistica può essere riscontrata in tutte le discipline, con la sola (forse) eccezione del calcio, nel quale i giocatori mostrano troppe volte comportamenti poco corretti, e perfino “disonesti” come quando mettono in scena simulazioni tese ad ingannare l’arbitro al fine di ottenere ingiustamente una decisione a proprio vantaggio. Non parliamo poi del tifo, che non ha più nulla di sportivo: i sostenitori di una squadra si abbandonano non di rado a manifestazioni violente, non solo con le parole, ma anche con azioni che arrivano addirittura all’omicidio; le tifoserie sono, talvolta, controllate da veri e propri criminali.  

Ma il fair play è poco praticato, purtroppo, anche nella contesa politica, che appare sempre più simile ad uno scontro tra opposte tifoserie anziché ad un confronto democratico, sia pure acceso. Anche in occasione dei referendum, abbiamo assistito a prese di posizione piuttosto discutibili da parte di esponenti delle Istituzioni che invitavano gli elettori a non andare a votare, oppure (più accortamente) a presentarsi al seggio e non ritirare le schede, con l’obiettivo di far mancare il quorum necessario per la validità della consultazione. L’astensione è ovviamente lecita, ma non mi sembra bello sollecitarla, per due motivi. Prima di tutto, non si dovrebbe incentivare la tendenza a disertare le urne che vediamo crescere di anno in anno e che non giova certo alla democrazia. Nel caso dei referendum, inoltre, si tratta di un modo per far prevalere la volontà di coloro che sono contrari alla proposta di abrogazione, anche quando costituiscano un’esigua minoranza degli aventi diritto al voto (attualmente, a conti fatti, basterebbe poco più del 10%).

Bisogna dire che questa strategia (ripeto: perfettamente legittima) non si verifica soltanto oggi, ma è stata adottata in passato da varie parti politiche ottenendo il risultato di far fallire numerosi referendum tenutisi negli ultimi decenni. Ciò tuttavia non la rende, a mio parere, meno criticabile.

A parte il fair play, è un fatto che, anche in mancanza di inviti – più o meno espliciti – all’astensione, ormai quasi tutti hanno ben compreso l’efficacia della suddetta strategia. La conseguenza, in una situazione caratterizzata da un numero molto elevato e sempre crescente di elettori che disertano abitualmente le urne (per svariati motivi e in qualsiasi genere di consultazione), è l’inefficacia, anzi l’inutilità del referendum.

Certamente al fallimento delle ultime consultazioni ha contribuito in modo determinante l’uso distorto (o l’abuso) fattone, specialmente negli anni finali del secolo scorso, con la proposizione di un numero eccessivo di quesiti, spesso incomprensibili perché mirati a modificare artificiosamente alcune norme anziché ad abrogarle, e su argomenti non abbastanza coinvolgenti per la generalità dei cittadini.

In ogni modo, sono convinto che l’istituto del referendum abrogativo sia ancora oggi un importante strumento di democrazia da salvaguardare in coerenza con quanto stabilito dalla nostra Costituzione, compresa la giusta previsione di un quorum di votanti per la sua validità (ma l’entità di quest’ultimo potrebbe, forse, essere rivista). Bisognerebbe quindi che tutte le forze politiche e sociali si attivassero, nell’interesse comune, per scongiurare quella che sembra essere la sua ineluttabile estinzione.

Adolfo Pirozzi

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