Giorgiana Masi, una storia sbagliata
Il 1977 è l’anno del primo festival di San Remo trasmesso a colori in TV. Al Teatro Ariston presenta Mike Bongiorno: vincono gli Homo Sapiens con la canzone “Bella da morire”, ma in testa alle classifiche ci sono i Collage, arrivati secondi con “Tu mi rubi l’anima”. La musica si ascolta in macchina nell’autoradio a cassette: c’é un brano vecchio già di 10 anni di Nina Simone ripreso dai Santa Esmeralda, “Please don’t let me be misunderstood”, Amanda Lear canta Queen of China Town, Francesco Guccini abita già in Via Paolo Fabbri 43. Al giro d’Italia Moser si piazzerà al secondo posto; terzo classificato: Baronchelli. I telefoni pubblici “vanno” a gettoni, una tazzina di caffè costa 120 lire.
Nel maggio del 1977 sono già sbocciate le prime conquiste civili: da tre anni sono entrati in vigore i decreti delegati che introducono democrazia e partecipazione nel mondo della scuola. Chiamata al referendum nel ’74, più di mezza Italia ha detto “No” all’abrogazione della legge sul divorzio: l’uomo osa giuridicamente separare la coppia che Dio ha spiritualmente unito finché morte non la separi. Da due anni é stata introdotta un’epocale riforma del diritto di famiglia basata sul principio di uguaglianza dei coniugi: è quindi già nata la comunione dei beni, si diventa maggiorenni a diciotto anni. Nel 1977 la trasformazione della società spinge forte col piede sull’acceleratore: “Non c’é tempo di fermare questa corsa senza fiato che ci sta portando via”. Per Alan Sorrenti noi siamo figli delle stelle. Noi tutti, anche gli studenti che scrivono sui muri delle scuole Kossiga con la K con la bomboletta spray. I giovani si occupano di politica e la politica si occupa dei giovani, e sono molti ad indossare un’idea come se fosse una divisa: i “fasci”, quelli di Piazza San Babila a Milano e di via Ottaviano a Roma, hanno i capelli corti e le scarpe a punta, nascondono lo sguardo dietro i Ray-Ban con le lenti a goccia, vestono giubbotti di pelle nera. Gli altri, quelli di sinistra, leggono Lotta Continua, portano l’eskimo, ai piedi hanno gli scarponcini di camoscio, al collo le sciarpe lunghe come i capelli. Hanno 18 o 20 anni, vanno a scuola, distribuiscono volantini, attaccano sui muri i propri manifesti tra quelli dei film di Bruce Lee e della Febbre del Sabato Sera. Partecipano alle manifestazioni di piazza dove sono in tanti a sparare, a lanciare le molotov, a picchiare, a mettere le bombe, a impugnare le spranghe di ferro, ad armarsi di chiavi inglesi. Chi fa politica rischia di farsi male, molto male. Battisti canta “Amarsi un po’ ” mentre il confronto diventa scontro: di politica, nel 1977, si muore.
In questo clima di tensione, di crescente specializzazione della violenza, il Partito Radicale di Marco Pannella organizza a Roma per il giorno 12 maggio, in piazza Navona, una manifestazione in occasione del terzo anniversario della vittoria del referendum sul divorzio. Manifestazione pacifica ma non autorizzata. La non violenza dei Radicali é una forma di disobbedienza, una sfida aperta al divieto di manifestare proclamato dall’allora ministro degli Interni Cossiga, quello con la K.
Piazza Navona é un luogo chiuso, facile da controllare, ha meno ingressi di uno stadio. La polizia chiude la piazza fin dal primo pomeriggio, carica a più riprese i dimostranti. E spara nel mucchio. A chi è rimasto fuori da piazza Navona, Radio Radicale chiede di restare in zona, protestare pacificamente, “fare l’elastico” su e giù per le strade, di partecipare comunque, di non tornare a casa. “El pueblo, unido, jamas sera vencido” cantano gli Inti Illimani (e quando, alla fine degli anni di piombo, i manifestanti torneranno davvero a chiudersi in casa, cedendo tutti i diritti al Gatto e alla Volpe per diventare dei divi da Hit-Parade, non resterà che il vuoto degli anni ’80).
Nella nebbia dei gas lacrimogeni si affrontano da un lato i dimostranti pacifici (ma anche gruppi studenteschi militarmente organizzati e gente armata non riconducibile a nessuna cellula politica) , dall’altro i poliziotti, ragazzi da duecentomila lire al mese, che in questi anni hanno a che fare con gli scontri armati tra giovani di opposte fazioni, ma anche col terrorismo, coi tentativi di golpe, coi sequestri di persona, col contrabbando, il traffico di droga, il racket e l’usura.
Gli scontri del 12 maggio proseguono fino a sera, da Piazza Navona battono il cuore di Roma allargandosi per cerchi concentrici, come fa un sasso gettato nell’acqua; alle 8 di sera Giorgiana Masi, manifestante che scappa correndo per mano al suo ragazzo su ponte Garibaldi, viene colpita alla schiena. Ha 19 anni, troppo pochi per morire. Al processo Masi verrà confermata per la prima volta la presenza nei cortei di poliziotti infiltrati, travestiti da “autonomi”, armati di spranghe e pistole. Le fotografie di quel giorno raccontano che qualche agente, sia in borghese che in divisa, spara ad altezza uomo, ma il nome di chi ha colpito Giorgiana non sarà mai pronunciato. C’è una lapide che ricorda il dolore di quella morte sbagliata sul Ponte Garibaldi, davanti alla statua di Gioacchino Belli.
Per diventare quello che siamo oggi abbiamo dovuto attraversare quel ponte, piangere una ragazza ferita a morte da un colpo alle spalle, portare sulle spalle il peso degli anni di piombo, anni duri e smarriti nelle nebbie dei gas, anni reticenti, dolorosi e violenti.
“Ma quanti ostacoli e sofferenze poi, sconforti e lacrime per diventare noi, veramente noi”.
di Daniela Baroncini