Tim, tra privatizzazioni scellerate e nessuna strategia digitale

Lo scenario è quello di una guerra fratricida tra i due principali azionisti di Tim, la francese Vivendi e gli americani del Fondo Elliott. Attraverso un ribaltone inatteso, il consiglio di amministrazione ha revocato la delega di Amministratore Delegato all’israeliano Amos Genish, mentre il manager era in Asia per affari. Un colpo di scena che è solo l’ultimo di una serie che negli ultimi anni è riuscita a stravolgere gli equilibri dell’ex azienda monopolista. I problemi di Tim, che ora rischiano di ricadere sui suoi dipendenti, hanno, però, inizio vent’anni fa quando l’azienda è stata privatizzata.

Genish, che manterrà comunque il suo posto nel consiglio di amministrazione, è espressione del gruppo Vivendi che di Tim è il principale azionista. La sua carica di Ad sembrava essere al riparo dalle costanti tensioni tra i due principali azionisti e nonostante Elliott, il secondo maggior investitore, detenga la maggioranza nel Consigli d’Amministrazione. Al suo posto Telecom Italia ha nominato Luigi Gubitosi, un nome già noto con posizioni di comando in molte aziende, per ultimo Alitalia.
Già da anni al centro di lotte di potere, adesso il futuro di Tim è sempre più incerto. Per comprendere i motivi di tali difficoltà bisogna risalire agli anni 90. La linea politica delle privatizzazioni, seguita da destra e da sinistra, vide in Italia raggiungere livelli ancora più radicali che in molti altri paesi. I governi, di qualunque colore, si sono trovati in perfetta armonia sul ruolo dello stato, che da allora ha, di fatto, smesso di essere regolatore e innovatore. Se si fa un confronto con venticinque anni fa, è subito evidente come le aziende pubbliche passate ai privati abbiano perso grandi quote di mercato mentre quelle rimaste a controllo pubblico, come Enel o Eni, si sono rafforzate. Anche la stessa Telecom nel 1997, quando era ancora pubblica, era tra le cinque maggiori aziende del settore delle telecomunicazioni al mondo. Oggi la società è divisa tra due prospettive opposte. Elliott vuole scorporare più della metà delle sue attività mentre Vivendi punta a mantenere il controllo della rete. Il ruolo dello stato non aiuta. Il governo, infatti, tramite Cassa Depositi e Prestiti, è il terzo azionista di Tim e i suoi consiglieri hanno appoggiato Elliott. C’è ancora confusione sulla futura strategia digitale del governo, e anche l’eventuale decisione di riunificare la rete attraverso un fusione Tim-Open Fiber, ipotesi paventata dal ministro Di Maio, sembra ancora poco definita nei dettagli.

Lo scorso 22 novembre un presidio di lavoratori ha protestato di fronte al Ministero dello Sviluppo Economico. I sindacati uniti parlano di bilancio “impietoso” dei diciotto anni in cui Tim è stata in mano ai privati e si dichiarano contrari a qualsiasi soluzione “spezzatino”, com’è stata definita l’ipotesi di scorporo societario. “La nuova Tim dovrà garantire scelte di politica industriale coerenti con gli interessi generali del Paese in materia d’innovazione, sviluppo digitale e sicurezza delle reti” hanno dichiarato in una conferenza unitaria. Nell’eventualità peggiore, si parla di possibili esuberi che coinvolgerebbero 18/22 mila dipendenti.

di Pierfrancesco Zinilli

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