Non cambiate le parole. Sono femminicidi e non “drammi della convivenza forzata”
Una delle prime notizie che mi colpì, a seguito dell’esplosione dell’epidemia da Coronavirus, fu una frase che disse un giornalista, sembrava caduta lì per caso, incastrata tra un’informazione e l’altra, persa, comunicata così rapidamente da non poter essere sentita, ascoltata, elaborata dai telespettatori. Tra i numeri di decessi, contagiati e guariti, io estrapolai la sola frase che allora, nessuno aveva udito. Le parole erano più o meno queste: “Si registra un aumento del 50% delle richieste di aiuto al telefono rosa a causa delle violenze causate dalla convivenza forzata”.
Il seguito non l’ho più sentito, il servizio andava avanti ma non ho più prestato attenzione al resto.
Mi interessava quella notizia data troppo velocemente, come se fosse un nulla a cui non era il caso di prestare importanza.
E invece a me piace scavare su indizi emessi sottovoce, quelle notizie che vanno comunicate senza farle “arrivare” veramente. Le frasi “perse” appunto. Quelle incastonate tra due mura di omertà.
Ebbene è un dato certo, il coronavirus e il non poter uscire di casa ha senz’altro peggiorato una situazione che già era allarmante, quella del femminicidio. Ma sempre di femminicidio si parla. Non serve cambiare parole perché il risultato non cambia.
Così il 23 marzo a Milano un uomo ha accoltellato la moglie alla gola, la notizia è stata diffusa sulla pagina locale di uno dei principali quotidiani italiani
con il seguente titolo “Coronavirus, accoltella la moglie dopo una lite per la convivenza forzata: arrestato a Milano”. Nell’articolo si tentava maldestramente di spiegare la violenza come esito di una lite, al posto della parola “aggressione” hanno cominciato ad adoperare altre espressioni, come conflitto, litigio, discussione. Hanno cambiato i vocaboli per edulcorare un po’ una realtà che tale rimane. Così oggi le donne vengono assassinate a causa della permanenza forzata e prolungata tra le mura domestiche, vengono uccise per le limitazioni alla mobilità causate dal Covid19.
E perdonatemi ma per me, che leggo da donna, mi sembra un insulto per tutte le donne e per la loro intelligenza.
Il coronavirus sta sostituendo altri termini nelle narrazioni tossiche sulla violenza: sono cambiate le parole ma il risultato è lo stesso perché si dimenticano, assorbite da una cortina di nebbia di facili risposte, tutte le domande che chi fa informazione “onesta” dovrebbe farsi sulle cause della violenza.
Così la “convivenza forzata” a causa della quarantena per il Coronavirus, si sta sostituendo negli articoli al “raptus”, al “dramma della gelosia”, “ai fantasmi del tradimento”, “alla disoccupazione”, “alla separazione”, “alla causa per l’affidamento dei figli”, “all’abbandono”, “alla depressione” e così via.
Spessissimo, accanto a queste notizie, si raccolgono le testimonianze di amici della coppia, di vicini di casa, di colleghi di ufficio che raccontano guarda caso sempre, dell’assassino come di una persone perbene, equilibrata, rassicurante, serena. Ecco, le opinioni di amici e vicini di casa non possono mettere a fuoco il dramma di una violenza familiare che spesso viene tenuta nascosta nello stesso nucleo familiare. E quello che ci sembra un vicino solo timido può essere invece un pericoloso assassino.
La violenza non capita per caso, non è mai un gesto improvviso ma sempre l’ultimo atto di una serie di soprusi perpetrati nel tempo e spesso non denunciati.
Dunque il Coronavirus non ha cambiato la violenza contro le donne nelle relazioni di intimità, la convivenza forzata può solo aver accelerato e fatto scattare aggressioni più frequentemente o violentemente, come avviene per esempio durante le festività o i weekend, ma tutto ciò si verifica per mano di uomini che sono violenti, che mettono in atto un controllo e un dominio nella relazione perché hanno introiettato profondamente una gerarchia di ruoli che vede la donna subordinata nella relazione, qualcosa che è invisibile anche agli occhi di amici, vicini di casa, parenti o familiari.
La violenza non sempre si esprime con aggressioni fisiche ma con il controllo, con la violenza psicologica, con la denigrazione spesso sottile e non è mai un fulmine a ciel sereno perché non ci sono improvvisi “drammi della gelosia” o “drammi della convivenza forzata” e anche per questo è inopportuno che molte testate insistano a pubblicare foto della coppia dopo l’ennesimo femminicidio spostando lo sguardo del lettore sull’amore, per mostrare a tutti quanto lui amasse lei poco prima di ammazzarla o sfregiarla o picchiarla così da perpetuare la con-fusione tra amore e violenza.
In base all’articolo 17 della Convenzione di Istanbul i media sono responsabilizzati a partecipare ad un cambiamento culturale per prevenire la violenza contro le donne e già dal 2014 si svolgono corsi di formazione sul corretto uso del linguaggio eppure è ancora difficile affrontare il nocciolo del problema. Quindi occorre dire ai giornalisti tutti, che non si può giocare con le parole e quando si affronta il dominio maschile, la sua violenza, il grado di aggressione fino ad arrivare all’assassinio, prima di dare risposte del tipo “è stato un raptus dovuto alla quarantena da Coronavirus”, poniamoci tutti delle domande le cui risposte sono sotto gli occhi di tutti.
Non giochiamo con il vasto vocabolario italiano, le sue parole e i suoi sinonimi per sminuire un problema che da tempo ormai è diventato una vera piaga sociale. Facciamo almeno in modo che le vittime di tali soprusi, non si sentano vittime due volte, coltiviamo il rispetto per le persone e agli ascoltatori o lettori dico, ponete attenzione a quelle notizie incastonate tra due mura di omertà. La verità non teme le parole, ricordatelo sempre.
di Stefania Lastoria