Popoli e miseria

Davanti a una giuria di cinquecento e uno ateniesi – che poi lo condanna a morte – Socrate cita un unico testimone della verità delle sue parole: la povertà. Ossia: il dono della sua sapienza alla città è totalmente disinteressato, non riceve compensi di alcuna natura, tanto che la sua condizione di povero è diventata proverbiale. Siamo nel 399 a. C. e ad Atene c’è chi – come Protagora e altri sofisti – vende il proprio sapere (ma Socrate dice le proprie merci) un tanto a parola, a pensiero. La povertà, però, ha diverse gradazioni, la cui soglia più bassa è la miseria estrema, l’indigenza totale, e quella di Socrate non scende mai fino a tale cruciale gradino. Sola a scuola filosofica dei kynikos, dei cinici, non nell’accezione negativa di oggi, ma dalla parola greca κύων (kyon – “cane”) è scesa sotto tale soglia. Nata da Antistene, allievo di Socrate, essa si era spinta – come attiva scelta di apprendimento, insegnamento, vita e verità – fino al livello più infimo, tentando continuamente anche di abbassarlo. La loro era una vera e propria scandalosa bios kynikos, vita da cani. I discepoli sono sempre più radicali dei maestri.

Circa un miliardo e mezzo di persone vive oggi – nel 2018 d. C. – con meno di 1,25 $ dollari, ossia un euro e qualche centesimo al giorno. Il 75% di queste persone sono donne. Di conseguenza su 2,2 miliardi di bambini al mondo la metà vive in un tale stato d’indigenza da morirne 22.000 ogni giorno, e circa 160 milioni sono già rachitici per malnutrizione prima dei cinque anni.

Ecco, tale miseria non si può chiamare a testimone di alcuna verità di parola e di pensiero, perché essa è già direttamente la verità di sé stessa. Verità spoglia, nuda, oscena, proprio come la miseria da cui emana. Possiamo celarla agli occhi, alla coscienza, alle dogane, alle notizie del telegiornale e ai dibattiti dei talk-show, ma essa resta – miseria-verità-tout-court. E se la verità-povertà di Socrate esprime ancora oggi la sua grande forza dialettica, quella dell’indigenza mondiale si delinea come dirompente e tremenda.

L’hanno chiamata marcia della speranza, proprio perché la sua iniziale spinta d’urto è stata la disperazione della miseria. È la marcia di circa settemila migranti che da diversi paesi centroamericani hanno raggiunto a piedi il confine tra Messico e Stati Uniti. È partita da San Pedro Sula, in Honduras, con un centinaio appena di persone, gonfiandosi come il corso di un fiume lungo il cammino e anche grazie al web. Ad essere però maledettamente significativa è la data di partenza della marcia: il 12 ottobre 2018. Esattamente cinquecento ventisei anni dopo che Cristoforo Colombo, il 12 ottobre 1492, sbarca su una piccola isola centramericana, chiamata dai suoi abitanti Guanahanì, sconvolgendo storia, geografia ed economia mondiale. A mezzo millennio suonato da quel primo passo occidentale su quei granelli di sabbia, i miserabili discendenti – sia originari, sia trapiantati – di quelle terre oppongono ora alla tecno-potenza del Nuovo Mondo, costituitosi poi in Impero del Nord, la loro oscena miseria, proclamando quale auto dimostrantesi verità in sé.

Il presidente Trump ha schierato circa 5.800 soldati per tentare di fermare questo spaventoso inveramento della saga cinematografica di George A. Romero sugli Zombi. D’altronde che già il primo di questi film, La notte dei morti viventi, del 1968, avesse forti connotazioni politico-sociali non era sfuggito ai più attenti critici e spettatori. Lungo la frontiera messicana The Donald ne vuole però schierare fino a 15.000 di militari tecnologicamente super-armati contro l’avanzante, invadente esercito dei pezzenti, dei morti di fame, di ingiustizia, sfruttamento, violenza, da Narcos e di Stato. Il giudice americano Jon Tigar ha già bloccato il provvedimento trumpiano di sospendere il diritto – costituzionalmente garantito – che ha ogni persona al mondo di presentarsi alla frontiera americana per richiedere asilo politico. Tigar. pesantemente attaccato da Trump, è stato perentoriamente difeso dal capo della Corte Suprema John Roberts. Non è certo, però, uno scontro meramente giuridico-legislativo, ma un vero e proprio confronto tra due potenze: una militarmente costituita, l’altra disarmata e destituente. Anche Trump riuscisse a far abolire quell’emendamento costituzionale la marcia dei miserabili non arretrerebbe di un millimetro.

L’Occidente ha dovuto già combattere e fare terra bruciata contro la forza dirompente della povertà, predicata e praticata da San Francesco d’Assisi. Nella sua epoca, a cavallo tra il 1100 e il 1200, la Chiesa rappresenta un potere non solo spirituale, religioso ma anche politico, amministrativo, di stato. Di fronte a tale potenza mondana, economica, patrimoniale, Francesco proclama la necessità di un’altissima paupertas, povertà. Una totale disappropriazione, rinuncia ad ogni qualsivoglia tipo di proprietà, di possesso, per una nuova forma di vita, basata unicamente sull’usus pauper, sull’uso povero dei beni materiali. È un vero e proprio atto di ribellione che fa traballare l’intero edificio costituito delle gerarchie e delle pratiche ecclesiastiche mondane. Una minaccia contro cui combattono a lungo – in vita e dopo la morte di Francesco – diversi Papi, cardinali e chierici eruditi. La combatterono con la repressione, ma anche con la mediazione, la disputa dottrinaria, la capacità di creare divisioni all’interno dei seguaci. Giorgio Agamben, uno dei maggiori filosofi italiani viventi, nella sua opera Homo Sacer, sviluppata in nove volumi, ha studiato a fondo tutta la complessa vicenda del monachesimo medievale e del francescanesimo. La disappropriazione destituente francescana è anche una abdicatio iuris, ossia un porsi fuori dal diritto, in quanto quest’ultimo è sulla proprietà che si conforma. Per Agamben è proprio il non aver saputo tenere fermo, anzi, il non aver rivendicato attivamente questo carattere di totale fuori uscita storica dal diritto proprietario – che ha irretito, smarrito, diviso i francescani tra dispute dottrinarie e labirinti compromissori, tra la necessità di essere accettati, riconosciuti dentro il grande corpo ufficiale della Chiesa e quello di cambiarla radicalmente. Gli ostinati della regola originaria come unica forma di vita e verità furono perseguitati, dispersi o costretti all’esilio. Gli studi e il discorso di Agamben hanno una dimensione più vasta – che qui non è però possibile riassumere – che squarcia una visione altrettanto ampia sul sistema del potere odierno. Uno sguardo anche da più parti contestato, ma ciò che preme qui sottolineare è che torna di incandescente attualità il tema francescano della abdicatio iuris, attraverso la proclamazione della propria miseria quale nuda verità in grado di sfidare la potenza discendente delle trecento persone più ricche al mondo che da soli detengono la stessa ricchezza dei tre miliardi più poveri messi insieme. E questa odierna marcia della speranza, questo cammino disperato eppure potente della miseria e dei popoli per l’abdicazione delle frontiere di forza, dovrebbe spingerci a tornare su quella pulsante pagina di vita, perché è nell’archeologia, nel sottosuolo concettuale che giacciono intatte quelle possibilità che possono ripresentarsi sotto una forma inedita, tecno-contemporanea o futura.

di Riccardo Tavani