Il calcio in Arabia Saudita e nel resto del mondo. Dove i diritti degli uomini e delle donne non trovano ancora riconoscimento.
All’inizio passò quasi sotto silenzio, poi, a scoppio ritardato, la notizia che la finale di Supercoppa italiana Juventus-Milan in programma il 16 gennaio 2019 si giocherà in Arabia Saudita è diventata un caso politico. E non per la bestiale uccisione – sembra ormai certo, avvenuta nel consolato saudita di Istanbul – del giornalista dissidente Jamal Kashoggi; e nemmeno per il fatto che l’Arabia Saudita da anni foraggia la guerra civile in Yemen in cui sono morte e moriranno ancora migliaia di persone, no. E’ diventato un caso politico perché – toh – si è scoperto che nel paese di Bin Salman le donne non possono accedere allo stadio se non in appositi settori riservati alle famiglie. Quindi stupore, sgomento, indignazione quasi generalizzati da parte della nostra bella politica, e non solo. Che poi, per carità, il tema è sacrosanto. Ma se parliamo di diritti, allora non dovremmo andare a giocare a pallone in buona parte delle nazioni del globo. Per dire, si faranno i mondiali in Qatar, dove per costruire gli stadi e le relative infrastrutture gli operai (per la maggior parte, di “importazione” da paesi più poveri) vengono fatti lavorare come muli a 50 gradi all’ombra, e molti di loro schiattano direttamente sui ponteggi.
Ma poi perché limitarci al calcio. Se lo sdegno fosse sincero si dovrebbe proporre di stracciare anche i contratti in essere per le commesse delle aziende italiane in paesi come – chessò – Egitto, Iran, Turchia. La verità, invece, è una: ai novelli paladini dei diritti delle donne che siedono in parlamento (e ai relativi codazzi di seguaci e follower) interessa l’uguaglianza dei sessi nella misura in cui la questione permette loro di agitare quel vessillo liberal-progressista (declinato in chiave sovranista da Salvini, Meloni & co.) sempre ripagante in termini di consenso, sull’onda del #MeToo. E interessa nella misura in cui distrae l’opinione pubblica (ma non ce n’è bisogno, chè la nostra opinione pubblica è già di per sé scordarella) dal fatto che la politica tutta, da più di trent’anni, da noi come nella maggior parte dei paesi occidentali, nella migliore delle ipotesi chiude gli occhi sui temi che riguardano il lavoro, la previdenza, la sanità, l’istruzione. I diritti delle donne sono fondamentali in una società che vuol dirsi libera ma non sono che una diretta conseguenza di quelli, appena citati, a un lavoro e a una paga dignitosi, a una pensione, a ospedali funzionanti a una scuola davvero formativa. Ed è vero anche il contrario: in una società di poveri, di ignoranti, di sfruttati, di frustrati, non può che scaturirne una guerra – appunto – tra poveri, dove a soccombere sono i più deboli e l’uomo avrà sempre il barbaro predominio sulla donna. Insomma, agire sulle cause più che sulle conseguenze, sennò dobbiamo concludere che i bei discorsi sull’uguaglianza siano solo un pourparler da parte di coloro che il sedere, ormai, ce l’hanno al caldo.
di Valerio De Marco