Il marcio oltre il colpevole

Cuffie e microfono telefonico. A fior di labbra, a fior d’orecchie, di cervello. A fior di sangue – freddo, trattenuto e incandescente, sparso – tra una casa, un raccordo autostradale e una centrale operativa di polizia. Una vicenda che ti afferra immediatamente dalle sinapsi cerebrali fino alle unghie dei piedi e non ti molla più – neanche e soprattutto nell’ultima scena. Un capolavoro di compattezza narrativa, densità ritmica e senso del dramma esistenziale umano: quello che esplode incontrollabile fuori e quello che implode lentamente dentro. Un minimalismo scenico d’interno che permette alla nostra immaginazione di squarciare un esterno percepito appena attraverso rumori, lacerti di voci, singulti interrotti dalla brusca interruzione della linea telefonica.

È la geniale opera prima di un gruppo di ragazze e ragazzi danesi realizzata alla fine del loro corso di cinema. La regia è firmata da Gustav Möller, ma il film è davvero il frutto di questo creativo circolo virtuoso, coordinato dalla produttrice appena trentenne Lina Flint. Pochissima moneta finanziaria per allestire un set ma moltissimo capitale mentale per riempirlo di suspense, non solo e non tanto di genere cinematografico thriller, quanto di generalità umana abissale. Certamente la spesa maggiore deve essere stata quella per l’attore protagonista Jakob Cedegrem, molto noto in Danimarca, ma quasi sconosciuto da noi. È proprio attraverso il suo personaggio, quello dell’introverso, controverso poliziotto Asger Holm che lentamente ma inesorabilmente arriviamo a scavare in nel marcioumano chiuso, serrato più che spalancato.C’è del marcio in Danimarca, ebbe a sentenziare il principe Amleto dal Castello di Helsingør‎, proprio lì a nella periferia di Copenaghen, dove si svolge la tragedia esteriore. Abbiamo fatto personalmente notare questa singolare coincidenza toponomastica alla produttrice Lina Flint, incontrata all’ultimo Festival di Torino. Lei ci ha risposto che quando hanno scritto il copione e poi girato il film non avevano assolutamente fatto caso alla concomitanza, ma che era vero, essa accende un’illuminante chiave di lettura su tutto il film.

 Di cosa ci sta dunque parlando l’amletico isolamento rappresentato da un telefono nel chiuso di una stanza, di una stazione di polizia rispetto a tutto il vasto, capillare, inafferrabile dramma che si svolge là fuori? L’isolamento dell’operatore telefonico in divisa non è solo spaziale e caratteriale, ma soprattutto ambientale. I colleghi non lo apprezzano, il vicino di postazione lo disprezza apertamente, il suo capo gli intima ruvidamente via telefono di attenersi strettamente al regolamento, ai compiti e all’orario del turno assegnatogli. Ossia di sgombrare il prima possibile la centrale dalla sua presenza. Smettendo di seguire anche la scabrosa vicenda in atto che lui sta cercando di risolvere sul filo minuti che passano.

L’agente Holm viene dunque a rappresentare proprio quella generale condizione umana che isola la terra, ossia l’insieme totale della realtà, che non è solo quella che noi direttamente percepiamo o che ci è testimoniata, attestata dalla scienza e dalla cultura. Ciò che è oltre, che travalica la nostra parete mentale è una inseparabile totalità universale che agisce in noi anche se non noi la neghiamo solo perché non la vediamo, tocchiamo, pensiamo. Il vero male lacerante, l’autentica folle tragedia è tale isolamento cui la nostra aberrazione ottico-mentale costringe la terra che abitiamo. E così solo l’improvviso disvelamento della connessione tra marcio interiore e sua proiezione esteriore ci potrebbe offrire una via ardua ma non illusoria di riscatto. Il vero thriller si svolge proprio sulla linea incerta, disturbata di questa possibilità oltre il marcio e la follia di un colpevole dietro il telefono.

di Riccardo Tavani

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