L’insostenibile decadenza dell’essere
La scena si apre sull’assenza del lago e del suo immaginario orizzonte. La prigione delle esistenze grigie e banali di un gruppo familiare che mal si sopporta. Unica eccezione Costantin, incompreso scrittore, malato di amore e di malinconica esistenza. Scrittore innovativo, usa la forza dirompente della immaginazione simbolica per trasformare il grigiore quotidiano che lo avvolge in forza distruttrice del suo stato d’animo. “Io vago in un caos di sogni”.
Questo è il teatro della parola che assume un valore assoluto e diventa metatesto, dove la scarna scenografia è un sostegno alla parola stessa che si fa metafora e allegoria.
Al Vascello di Roma va in scena “Il gabbiano” progetto di Čechov-prima tappa, per la regia di Leonardo Lidi è una compagnia di “teatranti” di alto livello recitativo, in grado di coinvolgere il pubblico per l’itera durata dello spettacolo.
Gli Stati d’animo, sono sottolineati dal passaggio di mano di un mazzo di fiori, fino alla sua distruzione scenica, in cui si trasforma in “gabbiano immaginario” ucciso con lo scopo di redimere ciò che non può essere redento.
Una denuncia della condizione sociale della borghesia, corrotta nella morale e nell’etica di comportamenti senza scrupoli, dove egoismi, piccoli interessi, falsità, vengono usate ognuno per il proprio tornaconto. L’amore non ricambiato incrocia tutti i personaggi, così come tutti amano senza essere riamati, soffrendo per atteggiamenti odiosi, rancorosi, a volte banali e ipocriti, ognuno nei confronti dell’altro. Una famiglie borghese alla deriva della ipocrita banalità del malessere di non scegliere la vita, ma facendosi attraversare da essa.
Costantin resiste, mantiene pura la sua etica morale al punto di suicidarsi per non rimare schiacciato dalla morte vivente della società in cui vive. Mente tutti continuano la scialba esistenza, attaccati il valzer della vita senza rendersi conto che sono zombi, morti viventi, prigionieri di un lago inesistente sognando un gabbiano inesistente.
Una società in declino, incapace di affrontare in nuovo mondo che necessità di “parole diverse” anche se incomprese. Una società inadeguata per risolvere i contrasti emergenti, affascinata solo dalla propria decadenza. E il termine decadenza è ripetuto a più riprese, per sottolineare il riconoscersi nella corrente culturale omonima, al punto di citarne alcuni esponenti come la Duse.
Indolenza e immobilismo, sradicano l’amore dai cuori degli innamorati, fino al gesto più tragico. L’amore che tutti sentono pulsare nelle proprie vene ma che viene represso giorno dopo giorno, solo per mantenere lo stato catatonico della propria incapacità di esistere.
Un meccanismo infernale che ingoia tutto e tutti. Solo Costantin, che rappresenta l’emblema del nuovo, della speranza di creare una nuova poetica e drammaturgia, una nuova arte, dominata dal rinnovamento delle forme, dove la parola intrisa di simbolismo sia sovrana, oltrepassando il guado del significato e della narrazione.
La vita, senza l’insostenibile decadenza della esistenza, non può essere vissuta senza pagare l’alto prezzo della vita stessa. Costantin, l’uomo innamorato, il poeta della rottura con la cultura borghese, i cui sentimenti sono feriti, sceglie il suicidio. L’unico modo per sopravvivere a se stesso.
“Un soggetto per racconto breve: sulle rive di un lago vive fin dall’infanzia una ragazza, giovane come voi; ama il lago, come un gabbiano, ed è libera e felice come un gabbiano. Ma il caso portò un uomo che la vide e, per ammazzare il tempo, la rovinò, proprio come questo gabbiano”.
Claudio Caldarelli