Essere giustizia
Quanti non anni luce, ma anni massacri, anni macerie, anni-chilimento, dovranno passare prima che si insedi una conferenza internazionale non di mera pace, quale tregua tra una guerra e l’altra. No, una conferenza che stabilmente rimetta il mondo sui cardini, per dirla con l’Amleto di Shakespeare. L’equilibrio delle forze strategiche planetarie, sancito a metà dello lo scorso a Yalta alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non regge più da molto tempo. Almeno dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, e dal successivo crollo dell’intero impero sovietico, ossia il sistema di alleanze statali e militari che ruotavano attorno alla ex Unione Sovietica. Non solo non tiene più, ma sono venute progressivamente esplodendo molte delle contraddizioni più o meno nascoste su cui si reggeva. Contraddizioni che sono alla base dei tanti conflitti bellici oggi sparsi per il pianeta, tra cui quelli più gravidi di minacce in Ucraina e in Palestina. Tutti questi conflitti, poi, sono avvolti dentro il mantello fetido di una grande guerra generale: quella contro l’equilibrio naturale e ambientale, fondamento e condizione della stessa possibilità di vita biologica sulla Terra.
Come il sistema planetario dei vulcani, collegati nel sottosuolo da una catena di fuoco, così lo sono le guerre in atto. Quelle di Ucraina e Palestina in particolare. Lo abbiamo scritto altre volte, ma giova ripeterlo. In Israele e Gaza si toccano gli estremi lembi del conflitto mai risolto e, anzi sempre più acutizzato, tra Primo e Terzo Mondo, tra Nord e Sud del pianeta. Più che conflitto, però, dovremmo chiamarla aggressione, sottomissione, razzia, violenta appropriazione di persone e risorse preziose del Sud da parte del Nord. La materializzazione degli alti valori teorici di civiltà, democrazia, benessere, redditi e diritti nel Primo Mondo sono stati possibili solo grazie alla sottrazione delle ricchezze del Terzo Mondo. D’altronde, fin dalla sua origine nell’antica Grecia di Atene, la democrazia si è sempre fondata su un interno privilegiato, che era anche un sopra, ossia i cittadini della pòlis, detentori esclusivi di ricchezze e diritti politici, mantenuto da quell’esterno, che era anche un sotto, fatto da donne e schiavi. Un modello che si è trascinato nei secoli, e si espanso via via su scala planetaria, attraverso il colonialismo prima e l’imperialismo economico-finanziario poi. Ora le punte estreme di questo interno-esterno, nel conflitto israelo-palestinese, vengono anche territorialmente a toccarsi, innescando uno spaventoso arco voltaico militare.
A sostenere le milizie arabo-islamiche, come Hamas, Hezbollah, e altre, c’è la dittatura religiosa iraniana. Ossia una potenza politico-economico-militare di grande dimensione regionale, che si proclama a rappresentante dei diritti del popolo palestinese, agendo di conseguenza. Anche la Turchia si erge a tale ruolo, svolgendo un’intensa attività militare non direttamente in Palestina, ma nel groviglio di milizie e flussi migratori in Libia.
A ben vedere, però, questo è uno schema geo-strategico pienamente in vigore già nello scorso secolo. L’ex Unione Sovietica, infatti, si era proclamata rappresentante, paladina e finanziatrice di tutte le rivendicazioni, spinte, lotte, guerre e guerriglie per l’indipendenza nazionale di popoli e regioni del mondo ancora sottomesse al giogo coloniale del Primo Mondo. Ossia, dopo l’andata in pezzi dell’Unione Sovietica, il suo ruolo, nella vasta Umma islamica, è stato assunto – inevitabilmente – dall’Iran. E proprio come allora, un’atroce dittatura si auto giustifica davanti al mondo, e per schiacciare meglio il proprio popolo, in quanto fautrice di una missione storica di giustizia mondiale.
La Federazione Russa, anche dittatorialmente erede dell’ex Unione Sovietica, pur ridotta nella propria dimensione territoriale e di potenza mondiale, dispone pur sempre del più ampio parco di bombe atomiche al mondo. Sono circa 6.300, contro le 5.550 degli Stati Uniti d’America. La Russia, inoltre, per compensare il suo ridimensionamento storico, si è alleata con la potenza mondiale della Cina. E quest’ultimo Stato già da tempo si è configurato come nuovo polo imperialistico, e proprio nel cuore del già depredato Terzo Mondo, l’Africa.
Non è possibile, come scritto altre volte, farsi alcuna illusione sulla possibilità di queste potenze dell’attuale gioco al rialzo, di sedersi a breve attorno a un tavolo che risistemi l’organismo generale per risolvere le devastanti infezioni periferiche. Anche perché per fare giustizia occorrerebbe innanzitutto – essere giustizia. Il Primo Mondo, il Nord, l’Occidente dovrebbe essere il primo a promuovere questo tavolo, proprio perché all’origine del suo pensiero, come anche nel suo versante ebraico, è iscritto tale concetto. Dal greco antico Dike, al latino Jus, c’è una radice semantica comune. Deiknimi, il verbo greco da cui discende Dike, significa mostrare, dimostrare, dire con autorevolezza, con verità. E iudex, giudice in latino, unisce proprio lo Jus di giustizia con il dex di Dike: con verità dire, mostrare, essere giustizia. Da Dike, dunque, discende lo stesso italiano io dico.
La giustizia, perciò, è nel sottosuolo che sorregge il nostro stesso atto locutivo di esseri umani, ossia animali parlanti, e in quanto tali sociali, zoon politikon, politici scrive Aristotele. Il non mostrare, dire, essere e restituire giustizia al mondo mantiene così aperta una contraddizione letale, che – al pari di una ferita senza suturazione –, suppura in putrefazione della stessa civiltà.
Riccardo Tavani