Daniela Marcone. Da vittima di mafia si può fare pace con il dolore
Daniela Marcone, figlia di un funzionario ucciso dalle cosche a Foggia, ripercorre la sua straordinaria storia di dolore e di coraggio.
Di quanta forza possa avere una donna lo ha scoperto a 25 anni, nel 1995, quando le cosche le hanno portato via per sempre papà Francesco. Che era direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia e appena una settimana prima aveva inviato un esposto in Procura contro alcune irregolarità nella gestione delle pratiche dello stesso ufficio. In quel momento la vita di Daniela è finita ed è ricominciata: in lotta per la verità, per la legalità, per non lasciarsi sommergere dall’odio e dalla rabbia, perché nemmeno gli altri familiari di persone uccise lo faccessero. E perché solo ricucendo lo strappo del torto e della violenza subiti si resta umani. Anche quando ricucire un dolore così disumano sembra impossibile.
Racconta di quel giorno e di come sia poi cambiata la sua vita: “Mi hanno ucciso papà sulle scale di casa, nell’androne, a colpi di pistola. Tornava dal macellaio, ho saputo subito che era lui quando sono arrivata perché a terra ho visto il sacchetto con la carne impacchettata. Il cruccio che m’e rimasto addosso per tanto tempo è stato quello di non averlo guardato in volto l’ultima volta che l’ho salutato, qualche ora prima era passato dietro la mia sedia, raccomandandomi di spegnere il riscaldamento. Era stato un marzo freddo, come questo. Ecco, già al funerale accadde qualcosa. Dal momento dell’omicidio avevo sentito entrare il male dentro di me. Quella violenza efferata, e poi la rabbia per quella violenza, mi avevano travolto e schiacciato completamente. Il fatto che papà fosse stato ucciso, che non fosse morto e basta, aveva annientato la mia umanità. Così decisi quasi d’impulso di perdonare: lo dissi, quasi lo urlai dall’altare al funerale, chiedendo all’arcivescovo Giuseppe Casale di poter parlare. «Perdono chi l’ha ucciso» dissi e sentii il male uscire, lasciarmi”.
Quel male però è tornato tante volte perché lei, la mamma e il fratello sono rimasti soli. Una solitudine insopportabile in quanto il padre era stato un uomo di Stato. Lo Stato doveva esserci e invece rimasero soli. Peggio, durante il processo, dopo la prima archiviazione, iniziò ad essere anche screditato da chi aveva lavorato con lui e lo conosceva. Si fece carico lei della ricerca della verità e quella ricerca la consumò, per dieci anni ricercò la giustizia che era fermamente convinta dovesse essere resa al padre, visto che lui nella giustizia credeva.
Il suo omicidio è rimasto senza colpevoli.
Così finì lei nel mirino, le arrivarono lettere e messaggi minatori.
Con il tempo comprese che nella ricerca di quella verità aveva perso la verità di suo padre e della sua vita, dell’essere umano che era stato. Fu lì che cominciò a ripercorrerla, ricostruendo chi era, perché era stato ucciso, contestualizzando la sua morte capì anche che doveva allargare lo sguardo, parlare di quello che stava accadendo a Foggia, delle guerre tra cosche che si consumavano nel silenzio generale.
Iniziò così a raccontare la storia delle altre vittime, che erano tante, più di quante si potesse immaginare. Con il passare del tempo si scoprì lo specifico della mafia foggiana, i suoi meccanismi. Fu una svolta epocale, anche per la magistratura.
Ancora Daniela Marcone ci spiega in prima persona: “Incontrai don Luigi Ciotti nel 2006. Lì iniziò la svolta per me. Organizzavo eventi, chiamavo il prefetto, interloquivo con le istituzioni: la città iniziava a cambiare. Cominciai a incontrare sistematicamente altri familiari di vittime di mafia. Conoscevo storie, e il dono di conoscerle mi rendeva più determinata, mi faceva capire che da tutto quel male poteva nascere qualcosa. La memoria del dolore lacerante che ci accomunava era generativa. Iniziarono gli incontri nelle carceri, qui prese forma il desiderio che avevo cullato di poter conoscere il nome di chi aveva ucciso mio padre, di sapere – visto che lui era nella luce – chi invece era rimasto nel buio.
Solo che io non avevo nessuno da incontrare: l’unico indagato, quello che aveva procurato la pistola che aveva ucciso papà, era morto in un incidente sul Gargano nel 2005. Finché per caso fui invitata da uno scrittore a un percorso di lettura nel carcere di Foggia. Mi venne chiesto di dire due parole, lo feci. Dopo l’incontro i carcerati dissero che volevano vedermi di nuovo, che erano colpiti dal mio coraggio. Non era mai successa una cosa simile”.
Questi percorsi si moltiplicano nelle carceri, la giustizia ripartiva è un’opzione concreta anche se in Italia è più complicato che altrove, perché manca la verità. L’80% dei familiari di vittime di mafia non la conosce, non sa chi ha ucciso i propri cari. Il diritto alla verità non è scritto nella nostra Costituzione, dove non compare mai la parola “vittime”. Ma questi percorsi sono speranza: quando raccontiamo le nostre storie parliamo anche a noi stessi, quando vediamo che il nostro dolore viene riconosciuto dai mafiosi e dagli assassini che abbiamo davanti capiamo che c’è una possibilità per noi di conoscere la verità e per loro, anche, di cambiare vita. Sembra impossibile, ma chiedersi cosa può riparare l’irreparabile che abbiamo vissuto è decisivo: è lì che torniamo tutti umani, noi e loro.
E la comunità in questo gioca un ruolo fondamentale, ci aiuta e deve aiutarci: non dimenticando le vittime e nemmeno i rei, come se queste due condizioni fossero definitive (vittime per sempre, colpevoli per sempre), ma diventando protagonista terza e collante tra i due.
È così che lo strappo si ricuce e che la morte viene accolta dalla vita.
Stefania Lastoria