Diario da Marrakech. Un brindisi di tè alla menta
La strada è impossibile da ricordare, nel dedalo di vicoli e di vie che riempiono la medina di Marrakech. Il tragitto invece sì ed è quello che da Palazzo El Bahia porta alla Mellah, l’antico quartiere ebraico. Si passa nel mercato delle spezie, in un tripudio di colori e odori. Piramidi di curcuma, di cumino, di cannella. Cesti di zafferano, di semi di anice, di coriandolo. L’uomo che cammina davanti a noi si mette la mano in tasca, estrae qualcosa ma intanto gli cade un mazzo di chiavi. Non se ne accorge. Lo raccolgo e lo rincorro, lo chiamo. Non mi sente. Alla fine lo raggiungo, quando vede le chiavi il volto gli si illumina. Mi ringrazia, mi chiede da dove veniamo. “Italia”, “Bella Italia, dove?”, “Roma”, “Roma? Francesco Totti!! Venite con me”. Dire di no è impossibile, Mohammed, così si chiama, ci porta nel suo negozio, per il più classico dei riti: ci vuole offrire un bicchiere di tè alla menta. È ovunque, nelle vie di Marrakech. Nei banchi allestiti per strada, nei carretti trainati dagli asini, nei ristoranti, nei negozi.
Il thè alla menta è la prima cosa che ci offre Moustapha quando ci accoglie nel suo riad. Ce lo versa nella maniera tipica, portando in alto la teiera. Non è una posa, un vezzo, un gesto puramente estetico. “Serve a freddarlo prima – ci dice – è il nostro simbolo di ospitalità, lo offriamo quando viene a trovarci qualcuno, ma anche il giorno di un matrimonio, oppure di un funerale”. Come il caffè, ma con qualcosa di più. Come un brindisi, ma più semplice, più alla portata. Si calcola che in Marocco, durante una giornata, le persone bevano tè 20 o 30 volte. La preparazione è semplice: serve un mazzo di menta fresca, due cucchiaini di tè verde e un po’ di zucchero. Si versa acqua bollente sul tè, poi la si mette da parte, si aggiunge menta e zucchero, insieme ad altra acqua calda. Il primo bicchiere versato viene rimesso dentro la teiera, per far perdere l’amaro. Alcuni ripetono il gesto due o tre volte. E poi si beve. Non importa dove, non importa quando.
Importa invece capire come c’è arrivato il tè, soprattutto quello della varietà Gunpowder, in Marocco. Alcuni dicono che siano stati i Berberi, a importarlo dall’Asia. Altri, invece, spiegano come sia stata la Regina di Gran Bretagna, Anna Stuart, nel 700, a regalarlo al Sultano Mulay Isma’il come segno di riconoscenza per aver liberato alcuni prigionieri. È solo a metà del 1800, però, che il tè divenne popolare in Marocco. Colpa o merito della guerra in Crimea, che lascia i magazzini inglesi pieni zeppi di tè cinese. E senza i tradizionali mercati, le riserve vengono vendute nei porti marocchini di Tangeri ed Essaouira.
Così il tè alla menta diventa simbolo del Marocco. E anche un po’ dell’esistenza. C’è un proverbio tuareg, infatti, che dice: “Il primo bicchiere è dolce come la vita, il secondo è forte come l’amore, il terzo è amaro come la morte”. Ma il tè alla menta è simbolo soprattutto di ospitalità, come quella di Mohamed, che dopo averci portato nel suo negozio tira fuori l’immancabile teiera e tre bicchieri di vetro, piccoli, colorati e decorati alla base. Vende spezie e souvenir, ma non ci vuole rifilare niente. “È per dirvi grazie”, ci fa. Non posso che fare un brindisi, allora. “A Marrakech”, faccio. Ma lui mi corregge: “No, a Totti!”.