Benjamin Netanyahu, premier israeliano.

Benjamin Netanyahu, dopo la vittoria di misura alle ultime elezioni, si avvia a diventare il premier più longevo nella storia di Israele.
I guai giudiziari che hanno investito il primo ministro e la consorte non hanno inciso sul voto, almeno non quanto la strategia politica messa in campo.
Sul fronte delle alleanze interne, Benjamin Netanyahu ha lavorato alla costruzione di una coalizione estremista. Nel corso della campagna elettorale, il primo ministro ha incoraggiato i partiti dell’ultradestra razzista, tra cui Otzma Yehudit – il partito che ha ereditato leader e politiche dal partito Kach, dichiarato fuorilegge nel 1994 e iscritto come organizzazione terrorista dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti – che propugna l’espulsione dei non ebrei dal paese. Evidentemente Netanyahu, a differenza dei suoi predecessori, non ha alcuna remora a trattare con i razzisti e ha puntato per ottenere la vittoria sul loro bacino elettorale. Una scelta che si riflette anche nel suo programma. Il capo del Likud, ha promesso ai suoi elettori l’annessione degli insediamenti illegali costruiti negli ultimi cinquant’anni sui territori palestinesi occupati e l’estensione della sovranità israeliana alla Cisgiordania. Una deriva pericolosa ma avallata dal suo grande sponsor, il presidente americano Donald Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e sostiene la sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano occupate.
C’è da essere preoccupati. Israele, dopo le elezioni, si muove su un crinale pericoloso che danneggia la sua posizione tra i paesi democratici, toglie ogni possibilità alla soluzione dei due Stati e rischia di alienargli il sostegno della comunità ebraica americana.
La vera posta sul piatto è la stessa natura democratica dello Stato di Israele.
Da tempo, la politica israeliana è infettata dal razzismo anti-arabo ma la discesa agli inferi non sembra finita. Negli ultimi anni il governo Netanyahu ha presentato un disegno di legge sullo Stato nazionale che sancisce la supremazia ebraica sulle minoranze israeliane e ha stretto alleanze con i governi etnocentrici di molti paesi. Dalla Polonia, all’Ungheria, dalle Filippine al Brasile.
Se, come sembra, al patto di governo parteciperà chi intende procedere a una pulizia etnica dei palestinesi ci troveremo di fronte ad un vero ribaltamento della storia ebraica. Una storia che insegna perché i diritti delle minoranze devono essere sempre efficacemente protetti.
Un’involuzione della politica israeliana che preoccupa i palestinesi e sta scatenando una vera rivolta tra gli ebrei della diaspora.
Le comunità ebraiche americane rifiutano che Israele abbracci una visione del mondo fondata sulla supremazia della maggioranza di un Paese sulle sue minoranze e sostengono che i diritti degli ebrei non devono venire a scapito dei palestinesi. Chi, ebreo, vive fuori da Israele sa che l’ascesa dei leader nazionalisti populisti in tutto il mondo ha portato con sé la crescita degli episodi di antisemitismo.
Anche per questo – afferma Batya Ungar-Sargon, editorialista della rivista Forward – Netanyahu con il suo abbraccio al nazionalismo etnico non tradisce solo la storia ebraica ma anche gli ebrei della diaspora perché in tutto il mondo si moltiplicano gli episodi di antisemitismo, specie dove sono al potere leader che disprezzano le minoranze e sostengono le teorie cospirative, come l’ungherese Viktor Orban e il presidente Trump. Entrambi stretti alleati di Netanyahu.
La politica israeliana, sostengono gli ebrei della diaspora, non può affidare la sicurezza e la sovranità del Paese sulla mancanza dei diritti, delle libertà e della dignità dei palestinesi. Lo stato ebraico deve respingere Il nazionalismo etnico sia perché è una politica aberrante sia perché è un’arma sempre e ovunque puntata contro il popolo ebraico.

di Enrico Ceic