Economia e Democrazia

Da qualche anno, buona parte del dibattito politico verte su temi economici. È comprensibile, considerando che il nostro Paese è economicamente regredito e non ha più recuperato il livello di benessere che aveva prima della crisi del 2008, ed ha problemi seri come la disoccupazione giovanile e la chiusura di tante attività industriali.

Se è, dunque, giusto dibattere di economia, è paradossale il fatto che i partiti ci chiedano il voto sulla base di ricette e proposte economiche che per buona parte di noi cittadini (me per primo) sono poco comprensibili. Che ne sa la maggior parte di noi di deficit, di spread e quantitative easing? Come capire se un provvedimento economico porterà buoni frutti, o avrà cattive conseguenze, come magari sostiene la fazione opposta?

Sempre più ci troviamo a dover votare senza cognizione di causa, sulla base di suggestioni e pregiudizi, sotto la spinta informativa o disinformativa dei social media. Il problema esiste, a meno che non si voglia riservare il diritto di voto solo ad economisti e funzionari di banca. La democrazia si svuota, se ai cittadini manca l’informazione necessaria a votare con la dovuta consapevolezza.

Sentendomi, come cittadino, in difetto per la mia scarsissima cultura economica, ho cercato di informarmi e di comprendere, almeno in linea generale, il senso delle diverse istanze politiche sul tema dell’economia, sperando di poter esprimere un voto consapevole, visto che a votare siamo chiamati abbastanza spesso.

E, sperando di non essere troppo noioso, vorrei condividere sulle pagine di Stampacritica le poche cose che credo di aver compreso.

Facciamo finta che l’Italia sia un’azienda. Facciamo finta che abbia un fatturato di un milione di euro l’anno: si direbbe abbastanza importante e florida. Però ha debiti che ammontano a un milione e trecento quarantamila euro: il 134% del fatturato. Data la sproporzione tra debito e fatturato, le banche che la finanziano cominciano a preoccuparsi della sua solvibilità. Potrebbero, addirittura, chiedere una procedura di fallimento, mandando sul lastrico tutti i dipendenti di quell’azienda. Oppure chiedere una ristrutturazione aziendale, che tagli drasticamente le spese, mandandone a casa un bel po’. O magari un provvedimento di amministrazione controllata, che toglierebbe autonomia all’azienda e, comunque, la costringerebbe a ridurre gli stipendi e lesinare sulle spese.

Questo parallelo può sembrare poco credibile, perché molti pensano che gli Stati non possano fallire. Ma in realtà gli esempi non mancano, dalla Repubblica di Weimar, all’Argentina, al Venezuela. In Europa, la Grecia è stata messa in “amministrazione controllata“ per scongiurare un fallimento imminente, ottenendo in cambio una riduzione del debito e la dilazione delle scadenze: ma quanto gli è costato!

Di fronte al dato oggettivo di un rapporto debito/PIL così preoccupante, sembra chiaro che ridurlo dovrebbe essere il nostro interesse principale e più vero. Prima di tutto per mantenere la nostra sovranità: non sei padrone in casa tua se i debiti superano di un bel po’ gli introiti e i creditori ti tengono per il collo. Un politico che vuol battersi per ottenere dai suoi soci (i partner europei) il consenso all’aumento del debito sta semplicemente mettendo la sovranità nelle mani dei creditori. Se poi, in nome del sovranismo, dichiara che aumentare il deficit è un dovere, allora ha semplicemente bisogno dello psichiatra.

Poi c’è l’aspetto strettamente economico. Alcuni dicono che l’aumento della spesa (e quindi del debito) serve a rilanciare l’economia, e che l’austerity (cioè il contenimento della spesa pubblica) è causa della nostra recessione. In realtà, ogni volta che si aumenta il deficit aumentano gli interessi da pagare, quindi “l’azienda” si impoverisce. Anzi, si innesca un circolo vizioso che tende ad auto mantenersi e che è sempre più difficile invertire. Infatti gli interessi che paghiamo (circa 80 miliardi di eurol’anno secondo il MEF) sono in crescita costante, perché l’aumento del debito fa aumentare i tassi d’interesse, e questi fanno crescere ancora il debito, e così di seguito. Se qualche improvvida dichiarazione o manovra economica fa aumentare lo spread, ecco che quegli 80 miliardi di interesse tendono rapidamente a salire. Negli ultimi anni tale meccanismo è stato frenato, in qualche misura, dal cosiddetto quantitative easing, cioè dall’acquisto di buoni del tesoro (non solo italiani) da parte della banca centrale europea, che ha così mitigato la crescita dei tassi. Quindi il freno più concreto al nostro dissesto l’hanno dato l’Europa e la banca centrale, che alcuni partiti indicano come causa dei nostri guai.

Ma, in ogni caso, quegli 80 miliardi di interessi non sono pagati dai ministri né dal governo (forse è per questo che si comportano con tanta leggerezza); li paghiamo e continueremo a pagarli noi cittadini sotto forma di tasse, accise, blocco delle assunzioni e dei contratti pubblici, chiusura di aziende e fabbriche, delocalizzazioni eccetera eccetera.

Un privato, per far fronte ai debiti, è costretto ad ipotecare i suoi beni; ma uno stato ipoteca, prima di tutto, il futuro: quando nasce un bambino, ha già sulle spalle la sua bella parte di debito pubblico. Quando sarà adulto, dovrà lavorare soprattutto per pagarlo: il suo futuro è, da questo punto di vista, quello di uno schiavo. Non è un modo di dire. Considerato che il debito italiano è ufficialmente (al marzo 2019) di 2.358.800.000.000 euro (duemilatrecentocinquantottomiliardi e dispari) e che gli italiani sono 60.483.973, ognuno di noi (compresi vecchi e bambini, disoccupati e nullatenenti) ha sulle spalle un debito di 38.998 euro: evidentemente, non tutti siamo in grado di pagarlo, ma tutti, o quasi, ne subiamo il peso. Il peso, ovviamente, grava poco o nulla sugli evasori fiscali, sulla mafia e… sui politici (nel senso che non risarciscono mai i danni che fanno); grava di più su quello sparuto 12% degli italiani che paga il 58% delle entrate fiscali; e grava sulle imprese (dal piccolo negozietto alla grande fabbrica), che non riescono più a dar lavoro né ricchezza al Paese. L’elevato livello di tassazione è dovuto, in fondo, a motivi molto semplici: che solo pochi pagano le tasse, che dobbiamo pagare 80 miliardi di interesse l’anno, e che il governo non sa contenere la spesa pubblica. Ridurre le tasse ridarebbe di certo fiato all’economia, ma farlo per decreto sarebbe velleitario, se non si incide su questi tre fattori.

Quanto alle tanto vituperate accise, paradossalmente, le pagano un po’ tutti, compresi gli evasori totali e i mafiosi: meno male che si sono dimenticati di toglierle, nonostante le promesse elettorali.

Quando si dà ai più disagiati un qualche aiuto (tipo il “reddito di cittadinanza”, la “pensione di cittadinanza” o gli “80 euro”) si fa un’azione apparentemente benefica e per molti versi doverosa. E lo sarebbe, se i soldi necessari provenissero, ad esempio, dal recupero di un po’ di evasione fiscale, dalle tasche dei più ricchi, da risparmi nella spesa pubblica, dalla lotta alla corruzione ed al malaffare (compresi i famosi 49 milioni della Lega) o un po’ da tutte queste cose. Ma se queste giuste manovre sono finanziate in deficit, sono in realtà una sorta di polpetta avvelenata: lo stato mi fa avere dei soldi che ha avuto in prestito, e che io dovrò, in quanto cittadino, restituire con gli interessi, impegnando anche i miei figli, nipoti e pronipoti alla restituzione. Perché il deficit sempre i cittadini lo pagano, compresi i beneficiari dei provvedimenti del governo. A dire il vero, anche i 5Stelle ne erano consapevoli. Infatti, in campagna elettorale avevano sostenuto che il reddito di cittadinanza non sarebbe stato finanziato in deficit, ma da opportune manovre di risparmio. D’altronde, con l’evasione fiscale che abbiamo e i quotidiani sprechi della spesa pubblica, solo un pazzo penserebbe di finanziare in deficit il miglioramento dello stato sociale anziché pescare, prima, in quei ricchi settori parassitari. Ma, una volta la governo, se ne sono prontamente dimenticati. Forse è il caso di chiedersi perché. Comunque hanno scelto la via più facile: l’aumento del deficit. La lotta all’evasione, come la lotta agli sprechi, è meno facile e scontenta un sacco di elettori; semmai, elettoralmente, rende di più un bel condono. Ma di aumentare il deficit son tutti capaci, e i politici, di diverso colore, lo fanno tutti (o quasi) da tantissimi anni. E perché dovrebbero smettere, visto che gli porta voti?

Certamente dà fastidio – visceralmente e irrazionalmente – che organismi  europei vogliano metter bocca sulle nostre leggi di bilancio. Può sembrare un’ingerenza ingiustificata stabilire i limiti da non superare e minacciare procedure di infrazione che, alla fin fine, andrebbero a peggiorare quel bilancio tanto criticato. Che senso ha, a parte quello di fomentare le tendenze anti europeiste e aumentare il consenso dei partiti euroscettici?

Ma anche su questo, il dibattito politico è fuorviante. Infatti, i Paesi europei si sono liberamente associati per fare un patto che unisce diversi aspetti della vita civile. Non solo un mercato comune e delle norme comuni, ma anche un’economia ed una moneta comune. Se i Paesi membri hanno un bilancio dissestato, è l’Europa che ha un bilancio dissestato. Se i Paesi membri falliscono, è l’Europa che fallisce. E, ovviamente, ha tutto il diritto di difendersi da questo pericolo.

E poi, perché mai l’Italia dovrebbe fare eccezione? Se mai, dovrebbe rispettare le regole comuni più di tanti altri partners, per due sacrosanti motivi: perché il peso della nostra economia è rilevante a livello continentale, e perché dell’Unione Europea siamo soci fondatori; l’idea stessa di un’Europa unita (o, almeno, tendente all’unità) è nata in casa nostra, con un manifesto scritto in italiano.

Invece, i nostri leader politici ci dicono che faranno la voce grossa e batteranno i pugni sul tavolo per riuscire ad ottenere… il nostro impoverimento e il nostro declino. Ovviamente, non usano queste parole; parlano di politiche espansive, di fallimento dell’austeriy ed altre belle cose di sicuro impatto mediatico. Ma una cosa credo di aver capito: l’aumento del deficit produce solo povertà, soprattutto per le categorie più fragili. Gli stati più “virtuosi”, guarda caso, stanno meglio.

Se abbiamo tante tasse e un’economia in affanno, è anche per quel debito eccessivo, che tuttavia il nostro governo si ritiene in dovere di aumentare. Se l’attuazione della flat tax è ancora in ritardo (e non ci sarà mai, se non in forme parziali, già sostanzialmente in vigore da anni) è per lo stesso motivo.

Un altro argomento anti europeista è quello che a comandare siano le banche, tipico esempio di “poteri forti”.

E questo è vero.

Ma da dove gli viene tanto potere, se non dal fatto che finanziano il debito pubblico? Quanto più è grande il debito, tanto più le banche hanno potere: perché con il 134% di debito, si va in default senza il credito delle banche.

Ma questo potere è, paradossalmente, autolimitante, perché in caso di default i titoli di stato perdono valore e anche le banche, che quei titoli hanno comprato, ci rimettono. Come pure i risparmiatori: e, si sa, gli italiani sono sempre stati forti risparmiatori, e posseggono una buona fetta di debito pubblico attraverso i tanti fondi d’investimento e assicurativi che sottoscrivono (magari senza rendersi conto che lo contengono). Allora, chi sono i poteri forti? Chi ha deciso che l’Italia debba fare questa politica economica autolesionista? Chi ha interesse che l’Europa sia più divisa e più litigiosa?

Io non lo so per certo, ma il sospetto che ci sia lo zampino di chi preferisce un’Europa economicamente e politicamente più debole, non riesco proprio a togliermelo dalla testa.

Per tornare all’economia e al mio tentativo di capirci qualche cosa, sta ora manifestandosi un aspetto, per così dire, ludico della politica economica. Mi riferisco alla proposta di stampare “mini-bot” per pagare i debiti interni dello stato. Negli anni ‘70, in un altro momento di crisi, una quota degli stipendi dei pubblici dipendenti fu pagata in BOT (quelli veri) ottenendo un piccolo beneficio per il bilancio dello stato, senza troppo danneggiare i dipendenti, cui è stato pagato il relativo interesse. Ma i soldi del monopoli non si erano ancora visti. Già lo stato paga in ritardo, ora sta dicendo che pagherà con soldi finti. Davvero un cambiamento decisivo. Ma perché non usare i mini-bot per pagarci governanti e parlamentari? Se dovessero accettarlo, vorrebbe dire che i mini-bot hanno un senso, se no vuol dire che sono una bufala.

di Cesare Pirozzi

Print Friendly, PDF & Email