Miracle, la bimba nata sulla Open arms, ora va all’asilo

Lei si chiama Miracle e nome migliore non potevano darle i suoi genitori. Perché è davvero un miracolo che sia venuta al mondo e che ci sia rimasta, che sia riuscita a rimanere in Italia con papà e mamma riuniti, che pochi giorni fa abbia potuto festeggiare il suo compleanno con il vestitino della festa, i canti, i sorrisi e l’amore dei suoi genitori. Fiori tra i ricci capelli neri, spegnendo le candeline in una piccola ma sicura casa, mentre il tempo è passato e ora aspetta impaziente il suo primo giorno di asilo. Lei è Miracle e, a due anni da quella drammatica notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 in cui venne alla luce sul ponte della Open Arms, pochi minuti dopo che i volontari della Ong spagnola avevano tirato su da un gommone mezzo affondato sua mamma Peace, con il suo pancione e le doglie in corso e il suo papà Simon. Una situazione drammatica, rocambolesca in cui, per una serie di circostanze “fortunate” tutto ha avuto un lieto fine.

E’ il miracolo della solidarietà che si fa vita e cambia il destino delle persone.
Parla il giovane medico italiano, volontario, che l’ha fatta venire al mondo, tanto per comprendere in che situazioni operano queste persone motivate solo dalla voglia e dall’energia di aiutare gli altri. Slanci di generosità ed altruismo che ci fanno sperare in un futuro migliore.
Lui si chiama Giacomo Pacassoni, classe 1981 ed è di Rimini.
“Immaginate il ponte di una nave mosso dalle onde, in cui stanno salendo decine e decine di persone ridotte allo stremo. Eravamo in un angolo, riparati da un telo. Insieme a me due ragazzi volontari, Juan e Pancho, e tre signore, due nigeriane e una marocchina, appena sbarcate, che accudivano la puerpera. L’espulsione è durata trenta minuti. Quando ho alzato Miracle c’è stato un boato di gioia su tutta la nave. Poi ci siamo accorti che non piangeva, non respirava, ed è calato un silenzio greve. Abbiamo cominciato subito le operazioni di rianimazione. Per fortuna, e dico per fortuna, sulla nave c’era una maschera d’ossigeno misura bambino. Tra quella e il massaggio cardiaco in 15 minuti siamo riusciti a farla respirare”.
Miracle è figlia dell’Italia pre-Salvini in cui chi tentava la traversata veniva soccorso, portato subito a terra, accolto e, se possibile, integrato.

In quell’Italia, i genitori della bimba, entrambi del Ghana, hanno ottenuto un permesso umanitario, ospitati per poco più di un anno nel Cara di Meneo in provincia di Catania e poi indirizzati in un centro SPRAR a Licodia Eubea, un piccolo centro agricolo di 3000 abitanti in provincia di Catania, dove adesso vivono. Simon ha trovato lavoro in un’azienda agricola e Miracle ha iniziato a parlare italiano. E sapete quali sono le parole che ripete più spesso? Lei sa dire “grazie” e “aspetta”.
Con garbo, gentilezza e l’esuberanza vivace dei bambini. Miracle forse ha tutto dentro di sé ma ancora non lo sa. Arriverà poi il tempo dei racconti, magari edulcorati da una mamma amorevole, a ricucire la loro vita precedente, le loro origini, il rischio di perdere la vita e la sua nascita. Verrà il momento di spiegarle perché quel nome. Viene un momento per tutto.
Proprio la madre racconta: “Sono salita su quella nave incinta di nove mesi perché non potevo far nascere mia figlia in Libia. Non potevo precludere almeno a lei un futuro e possibilmente una vita migliore. All’Italia dobbiamo tutto. Il nostro sogno è che almeno lei possa diventare cittadina italiana”.

Simon e Peace non fanno altro che ringraziare il nostro paese, la gente, i volontari, tutti coloro che li hanno aiutati a reinventarsi una vita, a rimboccarsi le maniche e ricominciare da capo. In un certo senso, quel giorno non è nata solo Miracle ma sono nati per la seconda volta anche loro. Grazie all’amore di tutti coloro che si prodigano ad aiutare i più deboli, i bisognosi. Sempre, in ogni angolo delle nostre città, capaci di ascoltare ogni angolo di un cuore che grida un silenzioso aiuto.

di Stefania Lastoria

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