La consulenza filosofica: finalità e modalità

Se darete alla luce ciò che è entro di voi, ciò che darete alla luce vi salverà. Se non darete alla luce ciò che è dentro di voi, ciò che non darete alla luce vi distruggerà”

   (Vangelo apocrifo di san Tommaso) 

Da sempre ogni uomo ha avuto bisogno di potersi orientare nell’esistenza. Gli antichi greci hanno cercato di cogliere le leggi del cosmo ed il senso che la vita può avere per l’essere umano. La conoscenza di se stessi è apparsa come la strada maestra per conoscere l’universo e Dio. Da qui la via della ricerca della verità, come senso del nostro essere al mondo e indicazione del modo di farne parte.

Sapere perché si esiste è ciò che può dare senso alla nostra vita, permettendoci di assumere dei  compiti e di assolvere a impegni. La vita affettiva e la vita lavorativa ne dipendono. La serenità del vivere ne è l’effetto. Il saper affrontare disagi e avversità ne è la risultante.

Per questo poter attribuire un valore alla nostra esistenza – in qualsiasi circostanze ci si venga a trovare – diventa fondamentale per non cadere in tutte quelle trappole della mente, dove la mancanza di un sereno rapporto con la vita può farci perdere. Questo è particolarmente importante nelle età di passaggio, in particolare nella fase adolescenziale, quando non si è ancora formato il senso della nostra identità e la ricerca di rassicurazioni affettive e riscontri d’immagine possono determinare disorientamenti e smarrimenti.

C’è, per questo, da chiedersi cosa possa fare la filosofia – o meglio i suoi cultori -, per far superare questi momenti di profondo disorientamento e possibile sbandamento. In realtà dovrebbe spettare ad ogni persona pensante – nelle vesti di genitore, parente, insegnante o semplicemente amico – questo compito preventivo, per non far interrompere quell’amore per la via che spontaneamente un bambino sano e partecipe di un ambiente sereno e rassicurante possiede, come un ruscello che scorre verso valle. Istillare la basilare fiducia nella vita rappresenta quella condizione propulsiva, per affrontare i casi della vita tenendo sempre aperta la porta della speranza.

 

  1. Il compito della filosofia

 

La filosofia non consiste nelle parole, ma nei fatti: dà forma, plasma l’animo, mette ordine nella nostra vita, regola le nostre azioni, indica ciò che si deve fare

     (L. A. Seneca) 

 

Se l’essere umano è fatto di anima e corpo, il grande compito che ci spetta è la conquista dell’armonia fra questi due aspetti. Si tratta di armonizzare le pulsioni del corpo con le esigenze dell’anima. Questa tensione rappresenta lo spirito, ossia l’anelito di unità dell’essere. Questo il compito pratico della filosofia: armonizzare in noi tutte le istanze interiori che percepiamo. In questa prospettiva la filosofia rappresenta la riflessione sul senso della nostra vita e su quell’agire che ci può far star bene con noi stessi, con gli altri e col mondo[1].

A questa filosofia si deve ricorrere quando la serenità è perduta, la via è smarrita, l’angoscia ci attanaglia e le porte della disperazione sembrano aprirsi davanti a noi. E’ proprio in questi momenti oscuri della vita che la luce del pensiero può aiutarci, con la sua forza ed il suo potere liberatorio: liberarci dai condizionamenti, liberarci dalle paure, liberarci dal senso d’impotenza. E’ in tal senso che – come ci ricorda Wittgenstein – la filosofia non è una dottrina, ma un’attività.

Quando riusciamo a rappresentarci la realtà, come relazione dinamica di costruzione di senso, come campo d’azione per la ricerca della nostra felicità, come farsi del nostro essere – pur sofferto e sudato – allora la vita diventa esaltante scalata, dove le visioni si allargano e le gioie delle conquiste svelano i panorami dell’anima. Questo spetta alla considerazione filosofica della vita, in quanto non ci si deve limitare – come sostiene Ernst Cassirer[2] –  a studiare le singole forme della cultura – quali quelle mitiche, religiose, linguistiche e artistiche – bensì si deve mirare a raggiungere una veduta sintetica generale, che non solo abbracci tutte le singole forme di vita, ma crei un’unità dell’azione, quale processo creativo dell’uomo stesso.

E’ attraverso tale pensiero di sintesi che una persona può superare quel senso d’inadeguatezza, derivante  dal non sentirsi all’altezza delle situazioni, dalla paura di apparire diversa,  dal percepirsi non accettata, dal reputarsi colpevole verso le persone che si amano.

La filosofia può farci riflettere, per permettere di vederci diversamente e di vivere assennatamente, come ci ricorda anche Seneca. Si tratta di riuscire ad avere una visione di vita, atta a creare condizioni di accettazione e di realizzazione: aiutare a comprendere che si può essere felici, nonostante le difficoltà che la vita può presentarci ed il mondo in cui ci si venga a trovare.

La filosofia costituisce, pertanto, quella forma di pensiero che può permettere ad una persona di acquisire quella consapevolezza di cui ha bisogno, per poter vivere adeguatamente e felicemente. Così la filosofia –come sostiene Antonio Pieretti – è “cura per l’uomo, in quanto in essa è riposta per lui la possibilità di dare un senso al proprio essere al mondo”[3].

Meno saperi e più autoconoscenza, sosteneva Kierkegaard. In tal senso la filosofia resta fedele alla sua funzione se può presentare fini per le nostre azioni – come sostiene anche Perelman -, se può contribuire a elaborare un modello del saggio e giusto modo di vivere, se può fornire criteri adeguati per giudicare del valore degli atti umani[4]. In tal senso è necessario rendersi conto che se la possibilità di una vita significativa deriva dall’avere degli scopi, questi sono fondati su fini, che a sua volta si riferiscono a valori, come ben evidenzia Max Scheler[5]. Gran parte dell’insoddisfazione dell’uomo contemporaneo deriva da fatto di avere talvolta – magari anche perché indotto dalla martellante pubblicità dei media – scopi senza valore, perché non riferiti a fini etici, politici e spirituali.

In tale prospettiva il filosofeggiare – quale forma di pensiero che riflette, distingue, deduce e ipotizza – può rappresentare una via privilegiata per comprendere se stessi e prendersi cura della propria esistenza. Non si tratta, quindi, di una filosofia intesa come sapere del soggetto su se stesso, ma come esercizio e cura – come sostiene anche Pier Aldo Rovatti[6] – volta a quella cura di sé, che secondo Foucault è pratica della libertà, in quanto contemporaneamente critica del potere e ricerca della padronanza di sé[7].  Di fatto, la filosofia è sempre coscienza critica del proprio tempo e consapevolezza del farne responsabilmente parte.

Da questo punto di vista la filosofia può essere definita come una pratica dell’autorealizzazione solidale, all’interno del mondo della vita[8]. Questo processo culturale passa per la modalità della conversazione, attraverso la quale si può apprendere a individuare problemi e analizzare situazioni, per considerare diverse ipotesi e prendere idonee soluzioni di vita. Introdurre, pertanto, la riflessione filosofica all’interno di percorsi terapeutici può costituire un proficuo viatico per liberarsi da pregiudizi e ossessioni, aprendo la mente a considerazioni diverse da quelle in cui ci si è trincerati per difesa personale o per deformazione mentale.

 

 

  1. La consulenza filosofica

Poiché fu la “Cura” che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo, poiché è fatto di humus (terra)”

                                           (M. Heidegger)

 

La cura è il pensiero che attribuisce un valore a ciò che si considera come valore. I valori non sono tali di per sé: sono valori in quanto reputati tali da una persona o da una comunità, e quindi riconosciuti e considerati come tali. Per questo i valori non s’impongono: possono solo essere evocati indirettamente, col proprio atteggiamento e attraverso particolari ambienti di vita[9].  In tal senso ci si può riferire a essi come tensione e vedere in essi un’ispirazione di libertà, nella convinzione che ci si possa realizzare nell’adempimento di qualcosa. E’ così che diventa un valore solo ciò di cui ci si cura: la propria vita, la vita di chi amiamo, la nostra casa, il giardino, l’orto, gli animali che accudiamo, la città che condividiamo, la natura di cui partecipiamo, il mondo nel quale operiamo. E’ per questo che Martin Heidegger ci spiega che scopriamo il valore della cura con ciò che abbiamo “avanti-a-noi” e nel “essere-già-in-un-mondo[10]: è il preoccuparci e l’occuparci di persone e cose che fanno parte del nostro mondo che ci dà il senso e la gioia del nostro esistere.

La consulenza filosofica rappresenta l’opportunità di aiutare chi ne abbia bisogno a farsi consapevole del proprio destino come conquista, nella convinzione di averlo e di poterlo affermare come possibilità di autorealizzazione positiva, come c’invita a credere Romano Guardini[11]. Ciò che poi deve essere tenuto presente – come evidenzia Pietro Ubaldi – è che noi possiamo essere artefici del nostro libero destino, se siamo consapevoli che esso è più libero nella fase di formazione e di determinazione di traiettorie e che il passato è la semina del presente e questi è la semina del futuro[12].

La consulenza filosofica è finalizzata a liberare colui che si presenta come un cliente, permettendogli di svolgere la propria vita, superando costrizioni e ossessioni che provengono dall’interno della propria anima. In tale prospettiva può risultare molto utile la prospettiva di Jaspers, nel suo proporre una filosofia da intendersi come orientamento nel mondo e come chiarificazione dell’esistenza[13]. Per questo Lahav – nel distinguere tra consulenza filosofica e psicoterapia esistenziale – sostiene che la prima non può essere legata ad alcun approccio filosofico o teoria particolare[14].

Si tratta di instituire un modo di pensare riflessivo, attraverso il quale poter individuare percorsi di vita, scoprire le possibilità di vivere in maniera più libera, trovare motivi d’interessamento e di coinvolgimento. Così, nel caso della sindrome bulimico-anoressica l’imporsi di non mangiare e il tormento del grasso – effetto di un’alterazione dell’immagine del proprio corpo, spesso iniziata con una dieta dimagrante che inesorabilmente diventa sempre più rigida[15] – richiedono di uscire da questo circolo chiuso ossessivo. Il superamento del rapporto patologico col proprio corpo – oltre all’uso di farmaci adatti – richiede una visione della vita e un convincimento che porti fuori il pensiero prigioniero di un’idea fissa.

 La consulenza filosofica si configura come ricerca della saggezza, come arte e pratica del vivere bene[16]. In tal senso la consulenza filosofica può e deve farsi consulenza pedagogica, quale effetto di un’autentica relazione. Il rapporto io-tu è un rapporto di reciprocità e di rischio, dove l’io dl consulente si attua attraverso l’io del cliente: “ Nello sguardo restituito il volto si apre – afferma Romano Guardini – e nasce allora quel rapporto in cui gli occhi si guardano negli occhi”[17].

Di fatto, aiutare una persona a riflettere in situazioni di disagio esistenziale rappresenta un’opportunità di cambiamento, permettendo di operare scelte, impegnarsi e crescere. Si tratta di far sì che ogni persona possa tirar fuori il proprio potenziale esistenziale. Questo anche in chiave critica rispetto ai modelli sociali dominanti, dato che al consulente filosofico, diversamente dal terapeuta, spetta una ridiscussione critica della società, riflettendo sul fatto che la filosofia è strumento di formazione continua.

Relazione e cura, in tal senso, rappresentano i due aspetti dei rapporti interpersonali[18]. Prendersi cura di un’altra persona significa aver a cuore la sua libertà e gioire del fatto che possa essere felice. Ogni relazione di aiuto è un prendersi cura. Questi discende dalla disponibilità mentale, che è un atto spirituale e non soltanto psicologico. Va oltre la simpatia emotiva e ideologica. Si tratta di un afflato etico, considerando – assieme a Amartya Sen[19] – che i comportamenti umani sono dettati anche da un interesse simpatetico, seguendo schemi mentali che vanno ben al di là di quelli prettamente economici. Di questo deve essere convinto un consulente filosofico, se intende operare sullo spirito della persona, che deve saper ritrovare valori di vita e armonie perdute.

Da qui il valore delle prime esperienze accomunanti delle diverse fasi evolutive: dalla mutualità con i genitori e le prime persone significative della nostra vita alla compartecipazione con i primi amici e gruppi, sino alla condivisione d’amore e etico-politica. In tali processi si costituisce l’intersoggettivà, fecondata dalle istanze ideali ed alimentata dal senso del “noi”. La percezione d’essere parte di una comunità, e poi di comunità sempre più estese, diventa l’orizzonte di senso entro il quale la cura acquista un significato: il senso d’un accomunamento etico all’interno d’una prospettiva ben più ampia di quella socio-culturale d’appartenenza.

Seguendo tale logica Carol Gilligan  rileva come si debba passare da un’etica della giustizia a un’etica della cura, privilegiando l’atteggiamento di Antigone rispetto a quello di Creonte. Si tratta di passare dalla rivendicazione dei diritti a un impegno morale del prendersi cura, sospinta da un’etica della responsabilità non solo verso chi ci sta vicino, ma anche verso chi partecipa di questa nostra comune terra. Va riscoperto il senso d’interdipendenza, che porta a prendersi cura della vita, sostituendo al potere ed alla separazione l’accudire e l’armonizzare, come atti d’amore ispirati dall’atteggiamento della non violenza[20] .

Per tutto ciò è necessario riflettere su come una “cura del servizio” possa produrre effetti controproducenti, come il viziare un bambino o il non far assumere consapevolezza e responsabilità ad un adulto o ad un’intera comunità. Dobbiamo, invece, indirizzarci e educarci tutti assieme, sia nei rapporti interpersonali sia in quelli interculturali, verso una “cura dell’apporto“. Dando il proprio apporto e richiedendolo agli altri, ognuno può sentirsi parte di una comunità più ampia, accomunandosi nell’impegno che ci si assume e nel compito che si svolge[21].

L’accomunamento ci fa uscire dalla logica della separazione e dalla consequenziale diffidenza e indifferenza: nell’accomunarsi ciò che emerge è il sentimento di condivisione e di corresponsabilità. E’ questa quella dimensione che Paul Ricoeur delinea come “potere in comune”, ossia come «capacità dei membri di una comunità storica d’esercitare in modo invisibile il loro vivere insieme»[22]. Molte malattie dello spirito partono da quel tipo d’isolamento sociale, che può determinare un ripiegamento in se stessi, dove l’insicurezza affettiva e la richiesta d’accettazione incondizionata possono causare l’istituirsi di pericolosi processi mentali.

Per questo il senso della cura discende dalla cura del senso. Si tratta di prendersi cura del senso della nostra esistenza, nella consapevolezza – come ancora Seneca ci ricorda – che il bene dell’uomo viene dalla cura. Se, infatti, non si ha cura del valore della vita e del significato che ad ogni gesto, in ogni atto e momento ad essa è attribuita, la cura non può essere iscritta in un orizzonte di significato, col rischio di restare strumentale o compensatoria.   Senza la “cura del senso” tutto può ridursi ad occupazione per passare il tempo, spesso asservito alle cose che ci circondano o occupano, a rassicurare aspetto ed immagine sociale, in ogni caso egocentricamente vissuto. Tutto ciò ci può far sentire soli e incompresi, privandosi di quel senso dell’esistenza che viene dal sentirsi iscritti in un contesto di relazioni significative e impegnati in un compito sociale.

 

  1. Le finalità della consulenza

Questa cura filosofica non è un calmante per sedare il sintomo. Non c’è alcuna guarigione staccata dal percorso di trasformazione ”                         (P. A Rovatti)

 

La principale finalità della consulenza filosofica è quella di aiutare la persona che ne abbia bisogno ad aiutarsi. Per questo il punto di partenza è sempre quello della relazione che si riesce a istituire. Non si tratta, quindi, di impartire consigli, modalità questa caratterizzante un rapporto a senso unico. Il vero counseling – ci dice May Rollo[23] – opera in una sfera più profonda: istituisce un lavoro congiunto di due personalità, che operano allo stesso livello.

Non dobbiamo credere che tale funzione possa essere svolta esclusivamente da un professionista. Persone intuitive, disponibili, che abbiano lavorato su di sé e che siano  pervenute ad un buon livello di autoconsapevolezza, possono esercitare tale ruolo.  L’importante è la coscienza del proprio limite e la responsabilità versol’altro che si ha di fronte.

Per questo, colui che a ragione può essere considerato il padre del counseling – Carl Rogers – pone alla base di tutto l’empatia e la congruenza.

Empatia è volontà e capacità di decentrarsi: si tratta di voler e saper mettersi nei panni dell’altro “come se” fossimo noi stessi a vivere quel disagio o quella sofferenza. Deve poter essere immedesimazione, senza diventare indebita, oltre che pericolosa e improduttiva, identificazione. Nell’immedesimarsi si rispetta la diversità, mentre identificandosi ci si vorrebbe sostituire, non riconoscendo la libertà dell’altra persona e il suo diritto di conquistarsi la propria vita.

Per immedesimarsi è necessario, quindi, un atteggiamento di apertura nei confronti dei messaggi che  ci vengono inviati, sia diretti che indiretti. Si tratta di entrare negli schemi mentali dell’altro, così da poter cogliere ciò che per lui rappresenta un problema, un’esigenza un valore. Solo conseguentemente a ciò si può comprendere il significato attribuito dall’altro alla comunicazione stessa.

Tale processo d’immedesimazione non è tanto nell’altrui dolore – dimensione questa impossibile, perché il dolore non è trasferibile – ma in colui che soffre.  Questa distinzione non è di secondaria importanza. A nessuno, infatti, possiamo far credere che soffriamo quanto lui: possiamo solo farlo sentire compreso nel suo soffrire. Non si può soffrire “per” lui, al suo posto, bensì si deve saper soffrire “con” lui. Questo è ciò che permette, a chi usa empatia, quel sano distacco che consente di portare aiuto, conforto e rasserenamento. In tal senso Edith Stein sostiene che solo il vissuto altrui che ci attrae dal suo interno può cambiare radicalmente la nostra prospettiva: non si tratta di un oggetto che abbiamo di fronte, ma percezioni di quel vissuto originario dalla sua stessa angolazione, senza confondersi con l’altra persona[24].

L’empatia è finalizzata ad attivare nell’altro le proprie capacità progettuali, attraverso le quali poter trascendere momenti di sconforto, situazioni di blocco, conflittualità frustanti. Così l’ideatore della logoterapia – Victor Frankl – sostiene che ogni essere umano ha sempre la possibilità di trascendere le limitazioni dell’esistente, dando un significato anche al facoltativo[25]. Da qui la capacità di sdrammatizzare le situazioni pur difficoltose della nostra vita: riuscire a vedere oltre il difficile presente aiuta a non disperare e saper intravedere sempre uno spiraglio di sole, pur nei lunghi periodi di piogge torrenziali. Questo il valore e la funzione dell’autotrascendenza: orientare sguardo e mente verso ciò che ci trascende. Si tratta di guardare le cose della nostra vita da dentro e dall’alto: da dentro, là dove ciò che conta è l’essenziale, dall’alto, lì dove ogni cosa può essere relativizzata e sdrammatizzata, come avviene con un qualsiasi evento che ha prodotto ansia e apprensione, quando lo si ricorda dopo anni con  sguardo ironicamente distaccato.

E’ per tutto ciò che fine della consulenza filosofica è il superamento dell’egoità. Tale processo viene attuato dal riattivare relazioni di senso e di cura. Attraverso relazioni significative – in cui ci si apre, ci si dona e ci si dedica – nel relazionarsi all’alterità l’io viene restituito a se stesso e trasceso.Così Simone Weil arriva ad affermare: “Non possediamo nulla al mondo, perché il caso può toglierci tutto eccetto il potere dire Io. Quel che bisogna dare a Dio, cioè distruggere è questo. Non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, eccetto la distruzione dell’Io”[26].

E’ per questo che la sofferenza acquista la caratteristica di un valore: il valore di conquistarci la nostra esistenza, di trascendere le circostanze difficoltose e le situazioni di disagio, orientandosi verso ciò che ci trascende e che rappresenta qualcosa da realizzare, qualcuno da aiutare, altri esseri da incontrare e amare. Da tali relazioni discende il senso stesso della nostra esistenza: un significato da realizzare. 

E’ questa l’idea che dobbiamo farci della nostra vita come una serie di compiti:  compiti da assolvere e da portare avanti. La felicità ci viene dall’impegnarci nei compiti che di volta in volta scopriamo e che ci assumiamo. La felicità, per questo, è sempre l’effetto di un atto etico. Nessuno può vivere felice se pensa solo a se stesso e al proprio utile:”devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te”, ci ammonisce Seneca[27]. Per questo, la porta della felicità si apre verso l’esterno, donandosi agli altri ed esaurendo le cause del dolore, derivante da una vita separata dall’armonia della natura e delle leggi dell’universo, come ci spiega in maniera convincente ed esauriente Pietro Ubaldi[28].

 Diventa fondamentale, per tutto ciò, il rapporto che si riesce a costituire tra persone, in quanto persone con la medesima dignità, pur nelle diversità di qualità e funzioni. A tale riguardo, sono necessarie alcune condizioni particolari, quali sono quelle della credibilità, della confidenza e dell’affidabilità.

Riuscire a percepire la sensibilità dell’altro è condizione di  credibilità:  se diversa soggettivamente è la percezione del dolore, come lo è anche la soglia del suo presentarsi, siamo credibili quando cerchiamo di cogliere l’altrui percezione, senza sminuirla o peggio ancora misconoscerla. Ciò che deve poter risultare credibile è la nostra immedesimazione, il senso del nostro considerare la diversa sensibilità e percettività dell’altra persona. Per questo, un modo di porsi freddo e impersonale è controproducente, come pure un’eccessiva accentuazione di partecipazione è facilmente reputabile come falsa.

Dalla credibilità discende la confidenza. Ci si confida quando ci si convince della genuinità dell’interessamento e si viene rassicurati dalla discrezione e riserbo della persona che cerca di entrare in empatia con noi. Poter confidare un dolore con sincerità e schiettezza, è già inizio della sua possibile guarigione, oltre che momentaneo conforto.

E’ in forza della credibilità e della confidenza che ci si può affidare ad un altra persona. Affidarsi vuol dire permettere all’altra persona o comunità di aiutarci e consentire che ci vengano proposti consigli, indicazioni e prescrizioni. L’affidarsi è la condizione di qualsiasi terapia e della conseguente possibilità di guarigione. Per questo si reagisce con sconforto – che nel peggiore dei casi può diventare anche risentimento – alla delusione ricevuta, o meglio riscontrata, da parte di chi ci si è posto come riferimento. E’ per questo fondamentale che non ci si ponga con atteggiamenti presuntuosi, creando false aspettative, come pure è necessario che sia sempre chiara la funzione che s’intende svolgere e l’eventuale competenza professionale che si mette in gioco.

Da tutti questi aspetti deriva la congruenza, consistente nel cercare di essere coerenti con ciò che si crede e di cui si fa motivo di vita. Questo richiede il cercare di essere obiettivi con se stessi, senza false umiltà ma anche senza sopravvalutazioni. Da tale tensione etica deriva l’autorevolezza, come credibilità della persona nel suo aver fatto tesoro di esperienza e sapere, fondendoli nel suo essere attendibile.

Da questi tre atteggiamenti può scaturire un ascolto attivo, indice di attenzione ed interessamento verso l’altro. Ascoltare attivamente vuol dire cercare di cogliere la motivazione che ha mosso una domanda, alla scoperta del sentimento che c’è dietro. E’ possibile formulando un’ipotesi, manifestata con una supposizione, senza pretendere di aver fatto centro al primo colpo. Per farlo è necessario percepire l’atteggiamento e osservare il volto e il tono della voce, per cogliere l’istanza nascosta e l’esigenza profonda.

 

  1. Le modalità della consulenza

 

La gemma si apre quando è pronta e non in uno sforzo competitivo”      (C. Rogers)                                

 

La consulenza filosofica è essenzialmente un prendersi cura dell’altro. Questo, tuttavia, non attraverso una modalità asimmetrica: la relazione non può che essere dialettica, attuata attraverso un “pensare assieme”, come ci indica Achenbach[29]. E’ dialogando e riflettendo assieme che possono emergere consapevolezze e aprirsi spiragli di vita. Per questo il prendersi cura è cosa ben diversa dall’aver cura per qualcosa – come possono essere dei beni che possediamo – o il curarsi di qualcuno – come atto di dedizione e servizio. Il prendersi cura va oltre, riflettendo sulle condizioni che hanno prodotto un disagio psichico o procurato un disorientamento esistenziale.

Si tratta di un prendersi in carico i problemi di una persona e delle persone che ne costituiscono la significativa rete affettiva. In tal senso, se si vogliono anche prevenire situazioni di disagio esistenziale, ci si deve interessare del mondo che ci circonda. Per questo Heidegger sostiene che “il prendersi cura è guidato dalla visione ambientale preveggente”. Un quartiere povero di luoghi aggregativi, una città invivibile, il deprivare tante persone di un rasserenante e edificante rapporto con la natura, questo e altro può determinare una carenza di ambienti vivibili, belli e ricchi di relazioni significative. In tal senso la consulenza filosofica si muove sempre all’interno di una prospettiva preventiva, per considerare in che modo si possano e debbano creare i luoghi della vita sociale e affettiva dell’essere umano e come vadano rispettate le esigenze dei bambini, quali la solitudine positiva – di cui parla la Dolto[30] – volta a nutrire l’immaginazione e la forza dell’anima, per poter vivere pulsioni passive, popolate da un’affettività positiva verso di loro.

Per questo, il primo fattore motivazionale di chi si assume la responsabilità di consulenza è quello dell’intenzionalità. Si tratta della ferma intenzione di prendersi in carico persone e situazioni.

Secondo fattore è quello di attivare genuini rapporti interpersonali, mettendo al centro la relazione fra persone, pur nella distinzione di funzioni e ruoli. Tale relazionalità si costruisce attraverso la reciprocità. “Il mio io opera su di me, come io opero su di lui. I nostri allievi ci formano, le nostre opere ci costruiscono – afferma Martin Buber – nella consapevolezza che “viviamo nella fluente reciprocità dell’universo”.

La reciprocità si costruisce tramite l’unità dialogica. Il vero dialogo – sostiene Paulo Freire[31] – è un rapporto orizzontale tra due persone o due gruppi: nasce da una matrice critica e genera criticità. Si nutre di speranza, di amore, di umiltà, di fiducia reciproca e di fede. Per questo solo il vero dialogo è capace di comunicare realmente. E’ ciò che ha attestato Socrate, mostrando come solo attraverso la costante cooperazione di soggetti che si fanno domande e che rispondono, che si può comprendere la natura umana.

Il vero dialogo esige il riconoscimento dell’altro nella sua completezza di persona unica  e irripetibile, determinata dallo spirito e soggetto di un proprio centro dinamico. Solo tramite tale atteggiamento si può costituire quella situazione di “comunanza attiva”, così come la qualifica Martin Buber[32]. Si tratta di attivare la sfera dell’interumano, che va ben oltre la mera simpatia e supera le tentazioni egocentriche dell’apparenza e quelle formali del ruolo. Questo avviene quando si rischia la relazione in prima persona, quando cioè in una situazione comune con l’altro ci si espone alla sua partecipazione.

Su questi presupposti può essere realizzato un vero colloquio, basato sul considerare il proprio interlocutore come persona unica, percepito nella sua diversità e intimità, accettandolo per quello che è, cercando di capire non per poter replicare e provando a cogliere il messaggio che viene lanciato al di là delle parole. Per questo, nel colloquio si deve stare attenti a non voler interpretare troppo in fretta, mettendo fra parentesi le proprie opinioni, tenendo sotto controllo l’impazienza e cercando di non interrompere troppo frequentemente.

Assumendo tale atteggiamento si può mettere in atto un’autentica vicinanza emotiva, volta ad attivare il canale della fiducia. Non a caso il processo emotivo immediato, attraverso il quale si può istaurare un rapporto con l’altra persona, è quello del ricalco. Si tratta della volontà di andare verso il modello di mondo dell’altro, guardandolo dal suo punto di vista[33]. Ciò è possibile immedesimandosi nella forma e non nel contenuto. Ricalcare una persona che si sente triste non è possibile nel motivo della sua tristezza – che resta in ogni caso personale – ma nel modo di come tale sensazione viene provata. Ciò è manifestabile attraverso lo sguardo, la vicinanza fisica e la postura, dettati da genuino interessamento verso l’altro, nella sua umanità sofferente, ispiratrice di genuina compassione.

Tale atteggiamento, tuttavia, rischia di restare improduttivo se non abbinato a una successiva ripresa di voglia di vivere. Si tratta di abbandonare la controproducente via della critica e della condanna, per suscitare spirito d’iniziativa e d’intraprendenza. Per andare in tale direzione può essere utile servirsi di alcuni modi di porsi, suggeriti da Carnagie[34]. Fondamentalmente si tratta di assumere un accogliente atteggiamento verso l’altro, col mostrare rispetto per le sue opinioni, metterlo in condizioni di rispondere sin dall’inizio del dialogo, lasciarlo libero di parlare, valorizzarne le idee, cercando di vedere sempre le cose dal suo punto di vista. Contemporaneamente, si deve però fare appello ai motivi più nobili dell’esistenza e ispirare sfide propositive. Rispetto a se stessi di tratta di cercare di evitare discussioni improduttive e di contrapposizione, non fidarsi della prima impressione, controllarsi, mettersi ad ascoltare, cercare i punti di accordo e di essere franchi, per poi ripensare alle idee altrui e concedersi il tempo di riflettere e cercare, avendo assunto un minimo di distacco emotivo, la soluzione più positiva.

Al consulente spetta anche il far sì che il cliente possa acquisire consapevolezza del proprio esser al mondo e di ciò che si debba fare per poter vivere felicemente. A questo è deputata la narrazione. Si tratta di creare adeguate condizioni espressive, affinché le persone coinvolte nel disagio possano narrare i loro vissuti e narrarsi come anime in ricerca. Si tratta, in realtà, di una co-produzione che permetta al paziente di attribuire un significato appropriato al suo vissuto. A tale scopo è necessario che sia presente nella relazione anche un sentimento di valore – sostiene Vincenzo Masini[35] – in forza del quale il vissuto si trasforma in sentimento comune, essenza del legame terapeutico.

Per questo Jerome Bruner sostiene che la narrazione riempie i buchi e dà significato[36]. Il poter narrare costituisce non soltanto un modo di presentarsi e di proporsi, ma una fondamentale condizione di presa di consapevolezza, quale interpretazione della realtà di fronte alla quale dover riflettere e un’opportunità di riesame critico di stili di vita e valori assunti. In questo la grande funzione del narrare, che permette di rinvenire, scoprire e costruire un significato.

All’interno di tale prospettiva bisogna tener presente l’importante funzione della scrittura narrativa. Si tratta d’incoraggiare le persona in difficoltà esistenziale a scrivere, in modo estemporaneo, storie sui vissuti della propria malattia. Lo scrivere può rivelarsi un metodo funzionale per entrare in contatto con la propria interiorità e impegnarsi nell’esplorazione della ricerca del proprio sé. Ricercatori come Stenberg hanno dimostrato come  lo scrivere su eventi stressanti possa interrompere il flusso degli ormoni di sforzo, che influenzano il sistema immunitario e conducono alla malattia.

Oltre a ciò c’è da tener presente che attraverso un approccio grafo-dinamico si può focalizzare il quadro biologico-temperamentale del cliente, in maniera tale da permettere il sentirsi capiti e accolti, in forza delle specificazioni possibili, desunte dall’operatore dalla precedente osservazione delle forme e dei modi della scrittura[37].

Altro aspetto positivo della narrazione è sul piano etico. Al posto del riferimento a principi rigidi e astratti, narrandosi, ogni persona può scoprire percorsi personali per affrontare le situazioni dell’esistenza, individuando criteri di giudizio differenziati, modalità operative particolari, forme per sdrammatizzare, liberarsi da pregiudizi e condizionamenti.

Con il narrarsi e lo scrivere si può lavorare terapeuticamente su se stessi. Tale metodo si basa sulla decisione di assumere un’auto-direzione di vita, volta a produrre rasserenamento e positività. Tutto ciò richiede un raddrizzamento degli atteggiamenti falsanti, delle modalità improduttive, dei blocchi emozionali. Si tratta di lavorare su se stessi, partendo da una considerazione  – il più possibile obiettiva -dei nostri limiti, da ciò che ci fa perdere la calma, ci irrita, ci indispone verso gli altri, ci isola o ci induce a voler prevalere sugli altri. Da tale auto-psicanalisi si può partire per raddrizzare i nostri improduttivi atteggiamenti, individuando modi di fare e di pensare produttivi di armonia nelle relazioni interpersonali e di serenità interiore. In tale direzione si tratta di passare dall’uso della forza e dell’astuzia, nei rapporti interpersonali, alla sincerità ed all’onestà. Si tratta di smettere di contrapporsi agli altri, assumendo subito atteggiamenti difensivi, per cercare invece di comprendere meglio le posizioni altrui. Immaginare i vantaggi dell’accettazione di situazioni difficili e di momenti di sofferenza, abituandosi a guardare oltre.

 

  1. Le competenze del consulente

 

“Prestare attenzione è la pre-condizione necessaria all’aiuto. Queste abilità comprendono il prepararsi all’attenzione, il prestare attenzione alla persona, osservare e ascoltare”        

                                               (R. Carkhuff)

 

Il consulente filosofico non ha come funzione quella di trasmettere informazioni né suo compito è quello di fornire indicazioni e dare consigli. Il consulente non intende modificare i comportamenti del proprio cliente: deve offrire la propria competenza professionale, sempre all’interno della sensibilità umana, per facilitare i processi di cambiamento positivo da parte di colui che chiede aiuto[38].

Secondo la bella immagine coniata da Gerd Achenbach il consulente filosofico è come un istruttore di navigazione, che sale su una barca in difficoltà e si affianca al timoniere: non ne prende il posto, ma rassicura e supporta con la sua esperienza.

A tale scopo il consulente deve saper praticare una rigorosa epochè fenomenologica, consistente nel saper sospendere il giudizio sulle questioni personali dell’altro, per poter cogliere il nucleo del vissuto problematico del cliente. E’ così che – seguendo in questo le indicazioni di Husserl[39] – si può avere quella intuizione eidetica, quale idea che pulsa dentro il fenomeno e che può essere colta hic et nunc per sintonizzazione. In tal modo si può percepire la visione del mondo dell’altro, senza bisogno di scavare dolorosamente nel profondo. Ed è permettendo al consultante di acquisire consapevolezza della propria weltanschauung che

La competenza professionale in una professione di aiuto non è, per questo, un freddo insieme di abilità ed una somma di saperi. Essendo una competenza relazionale, fondamentale ne è l’energia di vita che si porta dentro. Un consulente filosofico è colui che continua a educarsi ed a coltivare il proprio spirito: la vita può essere destata solo dalla vita, ci ricorda Romano Guardini.

Per tutto ciò centrale è la modalità relazionale. Seguendo l’atteggiamento suggerito da Carl Rogers, si devono poter interiorizzare tre modi di essere: la non direttività, la comprensione e l’autenticità.

Innanzitutto la non direttività, che significa voler proporre e non imporre. Al consulente non spetta il compito di fornire soluzioni, ma di strutturare un luogo adatto e creare un’atmosfera adeguata (setting). Si deve tener sempre presente che di fronte c’è un essere libero, detentore di una coscienza che non va manipolata, ma aiutata a liberare tutta la sua potenzialità. Quindi, cercare di essere flessibile, per poter comprendere una diversa visione del mondo e differente modo di vita.  Senza questo atteggiamento di comprensione profonda non si può attivare alcuna relazione di aiuto. Tale atteggiamento deve sapersi accompagnare, tuttavia, a una buona solidità emotiva, da coltivare come condizione indispensabile per poter svolgere tale compito professionale. E’ in tal senso che l’essere autentici non rappresenta una statica maschera professionale, bensì quella disponibilità a seguire quel fluire della vita che si ampia con l’esperienza, come un fiume che facendosi accogliente di tanti affluenti scorre armonioso verso il mare. Questo il senso della congruenza. Così, sempre Rogers, ci ricorda che “genuinità, in terapia, significa che il terapeuta è realmente se stesso durante il rapporto col suo cliente; senza nascondersi dietro una facciata, egli esprime apertamente i sentimenti e gli atteggiamenti che sono in lui presenti in quel momento”[40].

Per tutto ciò la non-direttiva non è una tecnica che s’impara, ma un modo di essere che si esercita e che segue una precisa idea di liberazione di potenzialità umane e di decondizionamento psichico e sociale. Ciò che è alla base di tale atteggiamento mentale è la convinzione che ogni persona è un centro di libertà e che è fonte di scelte interiori, consistente – come ci indica Rogers[41] – nella consapevolezza di poter essere se stessi, assumendosene la piena responsabilità, avendo il coraggio di pensare con la propria testa. Ciò diventa possibile se si riesce a liberarsi da tutti quei comportamenti dissociati, basati sul fatto di comportarsi a livello cosciente in forza di modelli rigidi introiettati, mentre a livello inconscio sulla base della tendenza attualizzante. Diversamente, si riesce a mettere in atto un rapporto ecologicamente armonioso con l’esistenza, quando anche a livello cosciente si segue la tendenza attualizzante, consistente nell’istituire comunicazioni reali, vivere un’esistenza più semplice e espressiva, interessandosi disinteressatamente agli altri ed esplorando il proprio spazio interno[42].

Conseguenza di tutto ciò è che la principale competenza del counseling è senza dubbio l’arte maieutica. Questa consiste nell’aiutare quella persona, che si pone come cliente, a tirar fuori le proprie potenzialità. Ognuno ne ha. Ognuno può usufruire di quelle che gli servono, per poter affrontare adeguatamente la propria situazione esistenziale. Ognuno ha diritto e dovere di svolgere tutto le personali predisposizioni, per realizzarsi e vivere felicemente la propria esistenza. In questo consiste il processo di personalizzazione, basato sull’assunzione di responsabilità da parte di ogni persona rispetto alla soluzione dei propri problemi[43].

L’importante è che il consulente intenda e sappia aiutare la persona che gli si presenta come cliente a tirar fuori le proprie capacità. Per questo la Nussbaum sostiene la necessità di passare da un’etica dei diritti a un’etica delle capacità, affermando che le capacità sono i veri diritti[44]. A tal fine – pur lasciando l’elenco libero di essere integrato – ne prospetta un funzionale decalogo, ispirato alla visione aristotelica della vita, volto alla realizzazione di un buon vivere umano. Da qui le capacità di base, quali quella di saper vivere una vita di normale durata, stando in buona salute e nell’integrità del corpo. Quindi le capacità di espressione, quali quella dei sensi, dell’immaginazione e del pensiero, nonché delle proprie emozioni e della ragion pratica. In fine la capacità d’appartenenza a diverse comunità, quella del rapporto col mondo della natura e del controllo del proprio ambiente, sia sul piano politico che materiale. L’approccio secondo le capacità è universalistico, in quanto ogni persona può attuarlo secondo la sua storia, le sue convinzioni e la sua cultura

In definitiva, le competenze del consulente non consistono in tecnica particolare, ma in un atteggiamento mentale, volto verso l’altro e intenzionato a far star meglio le persone che si rivolgono a lui per ricevere un aiuto. Per questo si tratta di una professione trasversale – come sostiene M. Danon[45] – e deve saper attingere a tecniche e metodi provenienti da diversi orientamenti psicologici. Ciò che, tuttavia, deve poter rappresentare un minimo comune denominatore è la volontà e la capacità di creare un clima favorevole alla comunicazione.

Per realizzare tale clima comunicativo vanno abbandonate le improduttive vie della trasmissione e dell’ingiunzione. Trasmettere è spedire una lettera che quasi sempre il destinatario non riceverà, come sostiene Danilo Dolci[46].

Distinguere fra trasmettere e comunicare è fondamentale per capire quando abbiamo qualche possibilità non solo di farci capire, ma soprattutto di comprendere lo stato d’animo, le emozioni, i vissuti soggettivi dell’altro che soffre, si isola, lancia dei messaggi disperati.

Per questo, lo stile comunicativo del consulente non deve essere né indicativo né super-logico. Lo stile indicativo, infatti – manifestato attraverso l’uso di imperativi e  generalizzazioni – risulta centrato sul consulente, non riuscendo a produrre una genuina piattaforma comunicativa. Così pure, lo stile super-logico si basa troppo sul contenuto della comunicazione, risultando nel suo insieme spersonalizzante.

Diversamente, ciò che può risultare produttivo ed efficace  è lo stile propiziatorio. Questi consiste nell’edificare la comunicazione  attraverso i canali emozionali, facilitando il contatto emotivo.  Tale contatto viene attivato da quella partecipazione emotiva che è la compassione empatica.

La compassione empatica rappresenta il fondamentale motorino d’avviamento della consulenza filosofica. Essa non consiste soltanto nella dolorosa emozione provata per una disgrazia o sofferenza altrui, specie se persona buona e in analogia con i propri vissuti – come nella Retorica sostiene Aristotele -, ma anche come predisposizione d’animo: “La compassione è l’occhio attraverso il quale la gente vede il bene degli altri, e il vero significato di esso. Senza la compassione, l’astratta visione dell’intelletto calcolante è cieca rispetto ai valori”[47].

In definitiva, la compassione empatica non consiste nel semplice sentimento di compassione, bensì nel sapersi porre emotivamente dal punto di vista del cliente che soffre e chiede direttamente o indirettamente un aiuto. In tal senso deve diventare spontaneo e quasi automatico il decentrarsi, il considerare ogni cliente come un soggetto detentore di una propria libertà e intelligenza, nonché il saper istituire un’immediata condizione d’intersoggettività. Due persone che, pur con diversa funzione ed esperienza, istituiscono un comune spazio mentale di produttività esistenziale.

Comunicare autenticamente, pertanto, significa creare le condizioni per avere qualcosa in comune, sia pure solo la sofferenza, per sopportare assieme e concertare qualcosa sempre assieme. Questo il minimo comune denominatore che può produrre lo sblocco di una situazione di isolamento, chiusura e disperazione.

Quello che un consulente deve saper attivare è un vero e proprio modello cooperativo fra sé, il paziente, i parenti più prossimi – con i genitori in testa – e tutti coloro che hanno a che fare con la situazione che si è venuta a creare.

Tutto ciò, tuttavia, non basta. Fondamentale è il fatto che il consulente  dia un senso alla propria via e non solo al suo lavoro, tale da comunicare il valore di una relazione significativa con l’esistenza.

In tale azione di attribuzione di valore il consulente è chiamato a produrre nel suo cliente e in se stesso un processo trasformativo. Si tratta di attivare una volontà di trasformazione: trasformare i vecchi schemi chiusi in nuovi aperti, le paure in scommesse, i condizionamenti in condizioni di opportunità, le angosce in decisioni, le schiavitù in liberazioni. In tal senso si deve fare leader della relazione, ma leader trasformativo, per la cui funzione è essenziale la confidenza e la tensione emotiva[48]. Saper produrre confidenze non vuol dire mettersi nell’ottica di fare indagini o di essere curiosi: si tratta di creare un clima interpersonale, dove lo stesso consulente mette in campo non solo la sua esperienza e il suo sapere, ma anche i suoi errori e gli aneliti della sua anima.

Da tale atteggiamento relazionale deve poter trasparire come l’emozione non sia da considerarsi come un’alterazione, bensì manifestazione e espressione di quel corpo vivente che noi siamo, che non è fatto di materia e cervello, ma di materia informata, centro di un potere spirituale da dover tirar fuori. Saper mettere in gioco la propria intelligenza emotiva – così come ci viene presentata e descritta da Daniel Goleman – rappresenta la condizione per poter considerare gli stati d’animo del cliente come realtà da accogliere e considerare, da cui partire.

Ciò che deve rappresentare l’orizzonte di senso di tutta l’azione terapeutica è il fine della felicità. Innanzitutto la consapevolezza di aver diritto a essere felici: accettare il diritto di tendere verso la felicità e quindi accettare la dose di dolore che serve per tale scopo, come un atleta accetta lo sforzo dell’allenamento, le delusioni e le sconfitte. In questa prospettiva si deve diffidare delle deleghe terapeutiche: tutti coloro che sono coinvolti in una situazione di disagio ne sono corresponsabili e doverosamente protagonisti della ricerca di rasserenamento e superamento. I genitori non debbono cadere nel doppio errore di presunzione di essere i soli capaci di risolvere problemi di disagio, come pure quello opposto di  sentirsi impotenti.

Bisogna saper entrare in un virtuoso circolo comunitario e comunicativo. E’ solo assieme che il disagio e il dolore possono essere risolti. E’ solo assieme che la vita con tutte le sue passioni può riaprirsi, per chi si è trincerato nel suo dolore, ripiegandosi nel proprio mondo fatto di isolamento e ossessione. E’ solo assieme che l’amore può tornare a illuminare i giorni dell’uomo, quando l’umanità sa riprendere il suo cammino fatto di ascendere ma anche di discendere: ascendere ai livelli spirituali più alti di pensiero e discendere nelle azioni della quotidianità, in mezzo a persone con cui condividere impegni, sofferenze e gioie, tutti partecipi di quel dono divino che è la vita. 

Si tratta di saper cogliere il dono continuo della vita, che c’invita a coltivare la nostra anima come il giardino prezioso che ci è stato dato in prestito, per godere di questa nostra terra, nella bellezza di tutto ciò che la natura ci offre e nella corresponsabilità di ciò che noi uomini facciamo per renderla vivibile e godibile per tutti gli esseri umani.

Professor Gaetano Mollo

Docente di Filosofia dell’Educazione

Istituto Universitario Progetto Uomo

 

[1] Cfr. G. MOLLO, La via del senso, La Scuola, Brescia 1996, pp. 23-84 e 145-172.

[2] Cfr. E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, tr. it., Armando, Roma 1968, pp. 147-148.

[3] A. PIERETTI, La cura filosofica, in G. MOLLO ( a cura di), Relazione e cura, Ed. Morlacchi, Perugia 2008, p. 55.

[4] Cfr. G. MOLLO, Funzione e valore dell’insegnamento della filosofia, in A. CAPECCI – G. MOLLO – A. PIERETTI, L’insegnamento della filosofia, Ed. Porziuncola, Assisi 1988, pp. 126-144.

[5] Cfr. M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., Fratelli Bocca, Milano 1994,  pp. 125-126.

[6] Cfr. P. A. ROVATTI, La filosofia può curare?, Raffello Cortina Editore, Milano 2006, p. 71.s

[7] Cfr. M. FAUCAULT, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, tr. it., Feltrinelli, Milano 1988, pp. 293-294.

[8] Cfr. L. TARCA, Pratiche filosofiche e cura di sé, p.114.

[9] Cfr. G. MOLLO, A scuola di valori, Ed. Porziuncola, Assisi 1996.

[10] Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it., UTET, Torino 1969,  p. 337.

[11] Cfr. R. GUARDINI, Persona e libertà, tr. it., La Scuola, Brescia 1987, pp. 235-236.

[12] Cfr. G. MOLLO, Pietro Ubaldi biosofo dell’evoluzione umana, Ed. Mediterranee, Roma 2006, pp. 57-59.

[13] Cfr. U. GALIMBERTI, La casa di psiche. Dalla psicanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 328-336.

[14] Cfr. R. LAHAV, Comprendere la vita, tr.it.,  Apogeo, Milano 2004, p.40.

[15] Cfr. G. CASSANO, E liberaci dal male oscuro, Longanesi, Milano 2008, pp. 249 -262.

[16] Cfr. W. BERNARDI – D. MASSARO, La filosofia una cura per la vita, C. Marinotti Editore, Milano 2007, pp. 9-11.

[17] R. GUARDINI, Persona e libertà, ed. cit., p. 194.

[18] Cfr. G. MOLLO ( a cura di),  Relazione e cura, Ed. Morlacchi, Perugia 2008, pp. 10-11.

[19]  Cfr. A. SEN, Scelta, benessere, equità, tr. it., Bologna 1986.

[20] Cfr. C. GILLIGAN, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it., Feltrinelli, Milano 1987, pp. 35-42.

[21]  Cfr. G. MOLLO, Il senso della formazione, La Scuola, Brescia 2004, pp. 62-66.

[22] P. RICOEUR, Sé come un altro, tr. it., Jaka Book, Milano 2001, p. 321.

[23] R. MAY, L’arte del counseling, tr. it., Astrolabio, Roma 1991, p. 93.

[24] Cfr. E. STEIN, Empatia, tr. it., F. Angeli, Milano 1985, p.96 s.

[25] V. FRANKL, Homo patiens, tr. it., Brezzo di Bedero, OARI 1979, p. 53.

[26] S. WEIL, L’ombra e la grazia, tr. it., Bompiani, Milano 2007, p. 49.

[27] L. A. SENECA, Lettere, in “Tutti gli scritti”, tr. it.  Rusconi, Milano 1994, p. 1016.

[28] Cfr. G. MOLLO, Pietro Ubaldi biosofo dell’evoluzione umana, Ed. Mediterranee, Roma 2006.

[29] Cfr. G. ACHENBACH, La consulenza filosofica, tr. it., Apogeo, Milano 2004, pp.129-135.

[30] Cfr. F. DOLTO, Solitudine felice, tr. it., Oscar Mondadori, Milano 1997, pp. 363-368.

[31] Cfr. P. FREIRE, L’educazione come pratica della libertà, tr. it., Mondadori, Milano 1984., pp.  132-133.

[32] Cfr. M BUBER, Il principio dialogico, tr. it., Ed. di Comunità, Milano 1975, pp. 214-218.

[33] Cfr. R. DILTS, Programmazione neurolinguistica: lo studio della struttura dell’esperienza soggettiva, tr. t., Alessio Ruberti Editore, 1995.

[34] Cfr. D. CARNAGIE, Come trattare gli altri e farseli amici, tr. it.,  Bompiani, Milano 1994, pp. 135-142.

[35] Cfr. V. MASINI, Medicina narrativa e counseling relazionale, in G. MOLLO (a cura di),  Relazione e cura, Ed. Morlacchi, Perugia 2008, p. 116.

[36] Cfr. J. BRUNER, La ricerca del significato, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 221.

[37] Cfr. I. ZUCCHI, Counseling psicografodinamico, Lingraf, Urbania 202, pp. 33-41.

[38] Cfr. D. SIMEONE, La consulenza educativa, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 141-158.

[39] Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965, p. 57 e ss.

[40] C. ROGERS, La terapia centrata sul cliente, tr. it., Martinelli, Firenze 1970, p. 83.

[41] Cfr. C. ROGERS, Libertà nell’apprendimento, tr. it., Giunti-Barbera, Firenze 1973, pp.130-131.

[42] Cfr. C. ROGERS, La terapia centrata sul cliente, tr. it., Astrolabio, Roma 1978, pp. 216-218.

[43] Cfr. R. CARKHUFF, L’arte di aiutare, tr. it., Erickson, Trento 1987, p. 115.

[44] Cfr. M. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, tr. it.,  Bologna 2004, pp. 497-499.

[45] M. DANON, Counseling. Una nuova professione di aiuto, tr. it., RED Edizioni, Como 2000, p. 28.

[46] Cfr. D. DOLCI, La comunicazione di massa non esiste,  L’Argonauta, Latina 1987, pp. 22-26.

[47] M. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni,ed. cit. , p. 469.

[48] Cfr. D. CARNAGIE, Scopri il leader che c’è in te, tr. it., Bompiani, Milano 1994.

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